Qual è la posizione degli imprenditori verso la globalizzazione? Quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi che gli imprenditori reputano legati all’effetto globalizzazione? «La globalizzazione dell’economia viene considerata dai suoi antagonisti come un fenomeno dannoso per i paesi più arretrati. È invece un’opportunità di progresso, perché estende la cerchia dello sviluppo – che da sempre porta con sé benessere materiale e, con il benessere, anche conquiste sociali, diritti civili, democrazia – in regioni che, da sole, non avrebbero la forza di sollevarsi dalle condizioni in cui si trovano. C’è un processo che non può essere arrestato: è la spinta, naturale, delle nazioni a raggiungere soglie di progresso sempre più avanzate. La globalizzazione altro non fa che accelerare questa spinta».
Allora come spiega le forti critiche? «Le critiche alla globalizzazione non sono una novità. Con motivi e sfumature diverse, le tesi esposte oggi dal movimento anti-globalizzazione riecheggiano le critiche che venivano fatte più di un secolo fa al nascente capitalismo. Per i critici del libero mercato ciò può essere la prova che il capitalismo perpetua i propri errori nel tempo. Io invece penso che sia riduttivo e distorcente riproporre, in termini simili, le critiche al capitalismo senza considerare i cambiamenti intervenuti nella storia degli ultimi cent’anni. Non si può, per esempio, trascurare che le alternative al modello economico liberista si sono rivelate fallimentari sotto tutti quegli aspetti sui quali, guarda caso, viene messo l’accento anche da parte degli attuali contestatori: democrazia economica, tutela ambientale, diritti civili. Per contro, si deve considerare che il libero mercato, seppure con innegabili limiti e contraddizioni, ha comunque contribuito a migliorare le condizioni di vita nel pianeta. Non è vero, come si sostiene, che l’innalzamento del tenore di vita verificatosi nei paesi industrializzati abbia avuto come conseguenza il peggioramento in quelli arretrati. In realtà, è in atto un processo di convergenza anche se di lungo periodo, tra le diverse aree geografiche. Da una ricerca pubblicata dal Fondo Monetario Internazionale risulta che l’Europa Occidentale ha raddoppiato il proprio indicatore di sviluppo umano tra il 1870 e il 1950, per poi sostanzialmente attestarlo su quel livello, cresciuto negli ultimi 50 anni relativamente poco. L’Africa ha più che raddoppiato quell’indicatore dal 1950 ad oggi, evidenziando quindi una crescita più veloce di quella che ha avuto l’Europa in quasi un secolo e mezzo. Come dicevo prima, la globalizzazione accelera lo sviluppo economico mondiale. Una prova ulteriore? Se si osserva la crescita economica nei paesi più industrializzati si nota che essa è stata robusta fino al 1910, perchè già alla fine dell’800 esisteva un discreto livello di integrazione. Poi, nel periodo tra le due guerre, in coincidenza con il ritorno del nazionalismo, la crescita è rallentata ed è ripresa successivamente nel secondo Dopoguerra, giungendo a superare i livelli di inizio secolo. Penso che le riflessioni sui modelli di sviluppo non debbano prescindere dalla valutazione dei risultati storici. Probabilmente, occorrerebbe recuperare un po’ di serena obiettività e accantonare visioni troppo caratterizzate sul piano ideologico o troppo vincolate ad una visione contingente. Ciò non significa, come dicevo, ignorare i limiti e le contraddizioni che – anche questa è storia e, in alcuni casi, attualità – il liberismo più spinto porta con sè e che occorre indubbiamente correggere. Caso mai, ponendosi il problema in chiave diversa, concentrando cioè l’attenzione non sul modello, ma sui tempi perché il divario di sviluppo si chiuda».
Cosa pensa del movimento contrario al G8 e delle manifestazioni che vengono organizzate ad ogni incontro? «Il richiamo alle esigenze dei più poveri, così come al rispetto dell’ambiente, è da condividere, ma non esiste contrapposizione tra i valori dell’uomo e il libero mercato, che è anch’esso, del resto, espressione della libertà, cioè di uno dei diritti che – almeno noi occidentali – consideriamo fondamentali, tra i diritti cioè naturali e inalienabili dell’individuo. Le contestazioni che vengono organizzate in occasione dei vertici come il G8 hanno il merito di richiamare i grandi del mondo alle loro responsabilità nei confronti di tutti gli abitanti del pianeta. Attenzione però: la strada da percorrere non è quella di sacrificare parte dello sviluppo, ma di far sì che lo sviluppo arrivi dovunque. Il riscatto delle popolazioni più povere potrà avere luogo solo se le stesse entreranno nella cerchia dello scambio. Quelle che ne sono fuori sono le più povere in assoluto. Dunque – ripeto, con tutta l’attenzione ad evitare fenomeni di colonizzazione, economica e culturale – la globalizzazione deve ampliarsi per allargare la cerchia. con uno slogan: "globalizzazione per includere, non per escludere"».
Come vede la posizione dominante delle multinazionali? Una minaccia o una realtà estranea, o quanto meno non pericolosa, per le vostre attività?
«Le multinazionali sono una delle declinazioni del fare impresa nel libero mercato. Sono un fenomeno normale, con il quale occorre confrontarsi. Penso quindi che tutti noi imprenditori, qualunque sia la dimensione dell’impresa che guidiamo, dovremmo imparare ad essere un po’ più multinazionali di quanto siamo. Se la competizione è globale, dobbiamo abituarci a cambiare i nostri tradizionali punti di riferimento. In una provincia come la nostra non siamo all’anno zero. Una provincia che esporta il 30% del proprio fatturato e che è presente con i propri prodotti sui mercati esteri da più di cent’anni, è abituata a confrontarsi con la competizione mondiale. Detto questo, non si possono eludere talune questioni che i movimenti anti-globalizzazione pongono, a proposito delle multinazionali. La questione più in evidenza è il supposto sfruttamento dei lavoratori e dell’ambiente nei paesi più poveri, dove le multinazionali trovano conveniente trasferire le produzioni. E’ una questione molto delicata, che richiede un approccio realistico e non ideologico, che rischierebbe di essere controproducente. Le richieste che vengano rispettati i diritti dei lavoratori – in particolare, l’astensione dal fare ricorso al lavoro minorile – e dell’ambiente, oltre a rappresentare delle istanze giuste in assoluto perché la questione non va posta solo in termini economici ma soprattutto etici, sono peraltro condivise proprio anche dalle industrie dei paesi più avanzati, che individuano nel mancato rispetto delle convenzioni internazionali sul lavoro e sull’ambiente forme di concorrenza sleale. D’altro canto, sono diversi i paesi meno sviluppati ad opporre resistenza al rispetto di quelle regole perché sanno che il loro adeguamento farebbe venir meno la loro attuale competitività. Per quei paesi si tratta di agganciare o mancare per sempre l’appuntamento con lo sviluppo. Anche a questo proposito, la storia ci è maestra. Guardiamo per esempio al nostro paese. L’Italia ha avuto la propria occasione di progresso industriale nel Dopoguerra: l’ha saputa sfruttare egregiamente perché poteva contare, in quegli anni, di condizioni macro-economiche (compreso un costo del lavoro contenuto) che consentivano alle nostre produzioni di essere competitive. Oggi quella situazione si presenta per altri paesi, che, come l’Italia e le altre nazioni industrializzate, hanno tutto il diritto di emergere dal sottosviluppo. Noi, allora, facevamo una forte concorrenza ai paesi più avanzati del nostro. Ora, sono gli altri a fare concorrenza a noi. Se qualcuno, dall’esterno, ci avesse imposto dei parametri onerosi, probabilmente noi ci saremmo opposti perchè avremmo avvertito un’ingiusta interferenza nel nostro diritto a governare il nostro sviluppo. Occorre lasciare tempo al tempo, certo promuovendo, favorendo, spingendo anche con qualche forzatura, là dove sono in gioco diritti fondamentali delle persone, ma con la consapevolezza che per tutti ci deve essere un’epoca di naturale transazione dal sottosviluppo allo sviluppo. E con la certezza che l’ingresso nella cerchia dello scambio porterà inevitabilmente a migliorare le condizioni di vita. Come insegna la storia, nell’area dello sviluppo c’è posto per tutti. Non si è ancora visto un paese sviluppato cadere in povertà».
Quale sviluppo auspica, visto che quello cosiddetto "sostenibile" si è rivelato inattuabile a causa della carenza di risorse?
«Sono ottimista per natura ma credo che, anche a questo riguardo, la storia possa confortarci sulla capacità dell’uomo di trovare rimedi ai danni che egli stesso provoca. Forse un po’ paradossalmente, ma in genere i rimedi si trovano proprio quando le situazioni sono stressate. Quando davvero sembra che una risorsa venga meno, allora scatta la ricerca dell’alternativa. E i livelli raggiunti quanto a capacità di ricerca e di innovazione tecnologica, mi fanno ritenere che l’ottimismo non sia fuori luogo».
Quale giudizio dà della posizione sindacale secondo cui la soluzione ai problemi mondiali è il rispetto dei diritti fondamentali degli uomini e soprattutto il riconoscimento del diritto ad un lavoro equo e giusto per ogni lavoratore «Come dicevo prima, occorre considerare le epoche di transizione per quello che sono, sapendo che le condizioni di maggiore competitività presenti oggi nei paesi arretrati o in via di sviluppo sono destinate, nel tempo, a mutare e ad allinearsi tendenzialmente a quelle dei paesi avanzati, come è accaduto ad esempio, nell’arco di pochi decenni, per il Giappone e altri paesi del sud-est asiatico. Il diritto al lavoro e ad un salario equo sicuramente esprime un concetto di altissimo valore, rischia tuttavia di rimanere un concetto astratto se l’economia non funziona bene. In qualunque sistema economico, sia esso più o meno avanzato, il lavoro non si crea con i proclami, ma solo con imprese competitive, cioè in grado di rimanere sul mercato. Invocare il principio del diritto ad un lavoro equo e giusto per ogni lavoratore con un approccio ideologico, sarebbe come ritenere che, in una società primitiva, ogni cacciatore avesse diritto ad avere una preda per il solo fatto di aver cacciato tutto il giorno. Purtroppo sappiamo che non è così e sappiamo anche, per fortuna, che è più facile avere di che sostentarsi in una società industriale avanzata, con i suoi meccanismi di solidarietà sociale, piuttosto che in una società primordiale, dove veramente la lepre può essere più veloce del cacciatore».
MarinoVago Presidente Unione Industriali di Varese
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