Dalla via dei contrabbandieri all’edificio hightech. Il Rifugio Castiglioni, la “casa” in montagna del CAI
Una casermetta della Milizia a presidio del confine fu trasformata in rifugio dal CAI di Gallarate. Settant'anni dopo, una tesi di laurea riscopre la storia e ipotizza un ampliamento moderno secondo le tradizioni locali
Nell’estate del 1946 in val Formazza era ancora vivo il ricordo delle battaglie partigiane e dei fuggitivi verso la Svizzera. La guerra era finita da solo un anno, quando il 4 agosto del 1946 fu inaugurato il Rifugio Gallarate, prima struttura del CAI gallaratese sulle montagne piemontesi. A distanza di settant’anni, il rifugio è ancora un luogo importante per gli appassionati alpinisti e camminatori, con un’ipotesi di riqualificazione con un’ala nuovissima, da realizzare riprendendo l’architettura tradizionale ossolana.
Il progetto di riqualificazione è al centro della tesi laurea degli architetti Silvia Chiesa e Ilaria Ligabue, laureate al Politecnico di Milano (sede di Mantova): proprio nella fase di ricerca della fase di ricerca preliminare le due laureande hanno scoperto nuove tracce dell’affascinante origine dell’edificio. Che nacque – ricorda il professore Matteo Scaltritti, relatore della tesi e iscritto del CAI di Gallarate – con le funzioni di casermetta per la guardia confinaria che presidiava i sentieri che conducevano verso la Svizzera. «La ricerca – spiega Scaltritti – ha riportato alla memoria un’immagine del 1948, ma soprattutto ha permesso di recuperare una lettera dall’archivio storico di Baceno che documenta nel 1936 l’acquisto di legname per la costruzione».
Il confine verso il Vallese era – come ogni altro confine italiano durante il ventennio fascista – presidiato da vicino, fin nelle valli alpine: alla già decennale opera di contrasto al contrabbando si era aggiunta anche la caccia agli espatrii clandestini degli antifascisti, con l’istituzione della Milizia Confinaria, con i militi in camicia nera e di stretta osservanza fascista. Fuggì dalle valli ossolane ad esempio Francesco Buffoni, esponente socialista di punta nel gallaratese, sindaco di Crenna e poi consigliere comunale a Gallarate: devastata dai fascisti la casa di Corso Sempione, passando da Varzo riparò in Svizzera e poi in Francia (dove visse, nella comunità degli esuli antifascisti, fino agli anni della guerra). E poi la lotta partigiana, con i tanti operai e giovani del basso Varesotto che – con il treno per Domodossola – salivano ad arruolarsi nelle file dei ribelli della Valgrande e poi della Repubblica dell’Ossola: alle Casse delle Cascate del Toce ci fu l’ultimo contrattacco contro i fascisti, dal Passo San Giacomo l’ultima ritirata e l’internamento in Svizzera.
Il rifugio appena inaugurato, nel 1948: una foto nota, ma riscoperta durante le ricerche per la tesi di Silvia Chiesa e Ilaria LigabueNon appena finita la guerra, anche il CAI di Gallarate riprese l’attività. «Il 4 agosto 1946 – continua l’architetto Scaltritti – viene inaugurato il rifugio “Gallarate”, che però nel 1950 viene lasciato per la “Casa della Contessa”, che fu affittata dalla Società Edison, che poi diede disdetta negli anni Sessanta». Si tornò così alla prima struttura: «Nel 1965 riceve l’intitolazione che porta ancora oggi, a Enrico Castiglioni, alpinista gallaratese e istruttore del CAI che era morto nel 1958, a 24 anni, sul Poncione di Ganna». Primissimo custode fu Tonino Galmarini, che in seguito tornò con la famiglia come gestore, fino a che non gli è subentrato Michele. Nelle verde conca del Devero, la struttura è diventata luogo di accoglienza per gli escursionisti e le famiglie (la zona è molto amata dai gallaratesi), ma anche punto d’appoggio e di transito per chi si spinge più in quota.
A distanza di anni dalle origini, il rifugio avrebbe però anche bisogno di una più ampia riqualificazione, al di là dei limitati interventi di adattamento alle esigenze contingenti emerse nel tempo. E qui si apre il capitolo più recente della storia, con la tesi di laurea che immagina un ampliamento dell’edificio (per ora solo una riflessione accademica). «L’adeguamento degli spazi interni – spiega Scaltritti, che è stato relatore della tesi – è uno aspetti fondamentali affrontati dalla tesi, oltre alla ricerca sugli elementi di coerenza tra il rifugio e il paesaggio». Il Parco dell’Alpe Veglia e dell’Alpe Devero prevede infatti regole stringenti per interventi su edifici storici e su nuove edificazioni: «L’ampliamento ipotizzato – coerente con normative del Parco – prevede un nuovo volume, che – per marcare la differenza con l’edificio storico – si pone con un linguaggio architettonico molto moderno, pur legato ad alcuni elementi che rimandano alle tradizionali ossolane, ad esempio nell’uso della pietra». Un’idea ambiziosa, non certo immediatamente realizzabile, ma che è ricca di spunti e di riflessioni basati sull’approfondita conoscenza del rifugio e della sua storia.
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