“Binda non era il sospettato”
I primi sospettati furono alcuni amici di Lidia Macchi, ma nel racconto dell'ex poliziotto Paolillo l'imputato era solo un comprimario
Gli ostacoli e i silenzi che gli investigatori incontrano nell’indagine sulla morte di Lidia Macchi sono stati ricostruiti in aula, venerdi, dall’ex capo della squadra mobile Giorgio Paolillo (nell’immagine estratta da un fotogramma del video). Nella sua deposizione il poliziotto in pensione ha raccontato che Stefano Binda era solamente, all’epoca, una figura sfumata. Il ragazzo che aveva destato qualche sospetto era invece l’amico Giuseppe Sotgiu, inquadrato in un trio di ragazzi cattolici, carismatici e un po’ intellettuali, amici fin dall’infanzia e residenti a Brebbia: Giuseppe Sotgiu (divenuto poi sacerdote), Piergiorgio Bertoldi (ora nunzio apostolico in Africa), Stefano Binda. Lidia era una loro amica, come Patrizia Bianchi, la ragazza all’epoca innamorata di Binda e che nel 2015 ha contattato la questura per indicare in lui l’autore della lettera anonima “In morte di un’amica”.
La deposizione di Giorgio Paolillo ricalca in gran parte questa intervista video del 2016.
Fino al tardo pomeriggio la corte ha ascoltato il sovrintendente Silvia Nanni che ha indagato sul caso negli ultimi due anni, ricostruendo tutte le annotazioni trovate nelle agende dell’uomo. Tra queste, gli scritti in cui dice di essere un barbaro assassino e una poesia di Cesare Pavese, circostanza per gli inquirenti importante perché anche nella borsetta di Lidia venne trovata una poesia di Pavese molto nota: Verrá la morte e avrà i tuoi occhi.
L‘udienza del 28 aprile ha anche trattato il tema degli errori della prima indagine che la pg Gemma Gualdi sottolinea a ogni passaggio con grande evidenza. Gli avvocati difensori di Binda Sergio Martelli e Patrizia Esposito hanno espresso sconcerto per alcuni aspetti mediatici della vicenda che hanno creato una pressione eccessiva sul processo. Il giudice Orazio Muscato ha condotto senza scossoni l’udienza.
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