Senaldi non si ricandida. “Non mi piace la politica dei selfie”

Il deputato Pd di Gallarate non cercherà la riconferma alla Camera. Critico verso l'eccessiva personalizzazione. E cita anche le Leggi avviate e poi bloccate per anni

Angelo Senaldi

Angelo Senaldi, deputato Pd di Gallarate, non si ricandida. Un addio alla Camera, per ritornare a fare politica sul territorio, spiegata con franchezza, senza nascondere le critiche alla politica, al Pd, al “renzismo” (anche se non usa la parola). «Avendo il mio lavoro, non vivendo di politica, avendo una passione vera, posso anche fare politica in modo diverso, senza stare nelle istituzioni».

Certo, nel gioco delle correnti dentro al Pd, delle “cordate” dei più o meno renziani, c’è spazio per ipotizzare anche una rinuncia anticipata, prima di essere “fatto fuori”. Senaldi dice che non è così: «Ho deciso durante l’estate, l’avevo spiegato già a un gruppo ristretto di amici. Poi a settembre l’ho spiegato anche al segretario regionale, ho scritto una lettera agli iscritti del Gallaratese. Oggi che è emersa la mia posizione, mi sembra giusto dare una spiegazione pubblica, perché non stiamo parlando di una scelta personale, ma di un incarico pubblico per cui si deve rendere conto».

E quali sono i motivi? Prima di tutto una certa insofferenza per «la politica dell’apparire, la politica dei selfie». Un sentimento a volte già emerso negli anni passati da Senaldi, che (occupandosi di lavoro e attività produttive) ha trattato anche alcune vertenze delicate, lontane dai riflettori. «È una riflessione personale, che riguarda non solo il Pd, ma la politica in generale» dice il deputato Pd. «L’apparire è diventato fondamentale. La riflessione, il lavoro non sotto i riflettori, la qualità del lavoro non pagano.  Prevale una politica di scontro e di apparenza: io non l’ho mai praticata, neanche a livello locale, e non mi sento adatto. E credo che non sia neppure quel che vogliono gli elettori, i cittadini».

«Il risultato del 4 dicembre non si può ignorare. Spingere su questa continua disintermediazione fa venire meno la coesione sociale, non aiuta. La disintermediazione che porta a ridurre tutto a una sola persona è un difetto».

Si riferisce a Renzi o è un problema più ampio? Il renzismo si è esteso in tutto il Pd?
«Sì, si è esteso a tutto il partito. E non solo al Pd, ribadisco: è una modalità che contagia tutti. Bisogna riconnettere le realtà in difficoltà, riaprire il dialogo con le rappresentanze sociali, con cui ho voluto sempre lavorare. Certo, i sindacati vivono anch’essi una fase di difficoltà, ma sanno ancora proporre una necessaria sintesi, sui temi dell’economia e del lavoro».

Un altro tema citato è quello della scarsa rappresentanza del Nord, tema decennale…
«C’è una necessità di maggiore rappresentanza e peso per le aree del Nord: negli ultimi anni ho quasi avuto l’impressione che l’asse della politica si stia spostando verso altre Regioni, verso il Centro, ma anche verso il Sud. È un problema anche dentro al Pd: la Lombardia ha in Direzione Nazionale lo stesso numero di delegati  della Calabria, pur avendo un peso ben più ampio in termini di abitanti e ruolo economico».

Qual è l’alternativa? Qual è anche la sua scelta, se non sta alla Camera…
«L’alternativa è ripartire dai territori. Anche una politica “spicciola”, ma che aiuti le persone a capire cosa si sta vivendo, che vada in profondità nel capire e proporre. Ci vuole velocità, ma anche profondità. E sincerità: io le critiche le ho sempre dette, condivise, fatte girare. Perché non voglio andare via dal Pd: starò nel Pd e lavorerò da un’altra posizione.  Non basta cambiare una classe dirigente come si è fatto. Si deve cambiare le modalità. Altrimenti sarà deludente».

Verrebbe da dire: di nuovo deludente, dopo questa fase…
«Ma sia chiaro: riconosco al Pd di aver cambiato le cose su alcuni temi».

Ad esempio?
«La legge sul mercato del lavoro – seppur incompleta dei provvedimenti su riqualificazione e reinserimento al lavoro – è stata un passo importante, insieme alle nuove tutele al lavoro autonomo. Così come il tentativo ciclopico – tale è – della riforma della Pubblica Amministrazione, prima con Renzi e poi con Gentiloni, che ha sapeto dare maggior tranquillità. Ci vuole decisione, ma anche capacità di rendere condiviso il cambiamento».

Quello del governo Gentiloni è un modello positivo?
«Sì, rappresenta un modello diverso. Forse un modello che incarna di più la figura di rispetto della responsabilità di governo. Ci vogliono i momenti di rottura, ma serve anche stabilizzare e rendere concreto, reale il cambiamento, in tutte le realtà, anche in quelle più periferiche».

Cosa intende per “periferiche?”
«Il cambiamento non è solo un annuncio a Roma, deve diventare operativo, entrare nella quotidianità delle persone. Quando le persone lo riconoscono, lo si può dare per fatto. Invece si è visto annunciare i risultati prima che fosse portato a compimento un percorso complessivo».

Nella lettera agli iscritti cita anche provvedimenti arenatesi nelle stanze romane: quali?
«Faccio l’esempio della Legge sulle chiusure dei negozi nelle festività, approvata a larga maggioranza alla Camera: avevo trovato una sintesi, tre anni e mezzo fa, partendo dalla proposta di Legge popolare sostenuta da Confesercenti, Cisl e Cei, facendo un lavoro di mediazione con la proposta del Movimento 5 Stelle».

Era tre anni fa: allora perché si è arenata al Senato?
«Presumo che ci siano forze esterne capaci di determinare rallentamenti. Non è salutare neanche per la politica, neppure per il partito. Oggi come Pd ci troviamo a dover ribattere a una proposta dei 5 Stelle, a inseguire. È solo un esempio. Allo stesso modo è successo con la “Legge sulle Etichette”, su cui si è perso due anni: solo in questi giorni va in Commissione al Senato. O ancora con la Legge sul commercio equosolidale».

Ultima domanda da “bilancio” di cinque anni: quali sono i temi su cui si è speso di più, su cui può rivendicare un ruolo?
«Partirei dalle grandi partite del nostro territorio: da Finmeccanica alla statalizzazione degli Istituti Musicali pareggiati. E poi il lavoro fatto su Industria 4.0, alcuni provvedimenti a sostegno della piccola imprenditoria».

Ora lascia Roma. Inevitabile chiedere se nei suoi progetti c’è anche Gallarate…
«Non torno per candidarmi a sindaco di Gallarate, non è nei miei programmi. Ci sono persone capaci e valide, che possono incarnare un centrosinistra solidale, credibile, attento. Gallarate come città sa già esprimere realtà di questo tipo».

Roberto Morandi
roberto.morandi@varesenews.it

Fare giornalismo vuol dire raccontare i fatti, avere il coraggio di interpretarli, a volte anche cercare nel passato le radici di ciò che viviamo. È quello che provo a fare a VareseNews.

Pubblicato il 13 Dicembre 2017
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