Oylem Goylem, elogio dell’esilio
Moni Ovadia conclude la Stagione teatrale comunale. Il trionfo del teatro yiddish
Marc Chagall raccontava che quando era ragazzo, senza un kopeco in tasca, e in città arrivava il grande cantore yiddish Sholom Aleichem (1859-1916), non riusciva nemmeno ad arrampicarsi sulla staccionata tanta era la folla che correva ad ascoltarlo.
Il riso che Aleichem scatenava nella gente, con i suoi racconti sullo Shtetl (villaggio dove vivevano gli ebrei dell’Europa orientale) di kravilevke e i personaggi che lo popolavano, restituivano al popolo errante la felicità, quella felicità che nella vita di tutti i giorni era sempre in bilico, precaria come solo puo’ esserla quella di un popolo in esilio. Il critico Baruk Rivkin affermava infatti che Sholom Aleichem, pseudonimo di Sholom Rabinovitz, dava agli ebrei dell’est un territorio narrativo per compensarli della mancanza di un territorio nazionale. E quel riso ancora oggi lo scatena Moni Ovadia, ebreo Bulgaro, trapiantato a Milano, con il suo “Oylem Goylem”, spettacolo di cabaret yiddish che, come lui stesso afferma, è «glorificazione dell’esilio».
Moni Ovadia ha iniziato questo percorso di ricerca delle radici ebraiche a metà degli anni Ottanta, con la riscoperta in Italia della musica Klezmer, un percorso continuato incessante ed erratico fino ad oggi. “Oylem Goylem” (il mondo è scemo) è la rappresentazione di una realtà diversa che parte dall’incertezza e dalla precarietà che accompagna il vivere quotidiano dell’ebreo errante. Un viaggio che ha nella propria consapevolezza interiore, e forse nemmeno sempre, l’unico punto fermo. Dice infatti Ovadia: «Quando parlo, parla l’ebreo Moni Ovadia. E a ben pensare, forse, nemmeno con tutto me stesso».
L’umorismo ebraico mette in crisi e smaschera il pregiudizio, la certezza, l’idelogia. È un antidoto efficace contro l’arroganza, è giustamente feroce contro i potenti. E lo yiddish, babele di lingue, segno che non trova pace, come il suo popolo, ne è l’essenza, la giusta espressione. «Lo yiddish ancor prima che una lingua è una condizione dello spirito». E quando si assiste ad “Oylem Goylem”, lo si comprende. Le ballate cantate da Ovadia, accompagnato dai bravissimi maestri della Teatherorchestra, colpiscono per la loro intensità, sia che parlino di bulbes (patate) sia che parlino di Avram Avinu (Abramo padre nostro).
Ovadia scherza su tutti i luoghi comuni riguardanti gli ebrei: il naso adunco, la famosa intelligenza giudaica, ovvero «Una perversa calunnia antisemita, e anche delle peggiori», l’assillo cinetico, il continuo peregrinare che a lungo andare si è trasformato in una condizione mentale, tanto che l’ebreo errante puo’ essere anche una forma mentis.
Quanta nostalgia c’è in quelle canzoni e in quelle storie, forte, incolmabile. Nemmeno l’allegria del clarinetto e lo squillo della tromba riescono a stemperarla. Recita una storiella yiddish: «Una volta ho sentito un vecchio ebreo, che sembrava avere attraversato secoli e continenti, dire: la somma degli angoli di cui ho nostalgia è di trecentosessanta gradi».
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