Il nemico dell’omeopatia è il pregiudizio
Intervista a Paolo Campanella medico omeopata da oltre 15 anni
All’inizio, nel 1993, era considerato un po’ come un mago Merlino. Non usava carta intestata e si comportava come se fosse un carbonaro. Oggi, Paolo Campanella, 45 anni, è un medico omeopata tra i più conosciuti in provincia di Varese ed è allievo del ticinese Dario Spinedi, uno dei massimi esperti di oncologia omeopatica.
Dopo una laurea in medicina e chirurgia, Paolo Campanella riesce a entrare al Gaetano Pini per specializzarsi in ortopedia. Un posto ambito, che qualunque suo collega avrebbe considerato come la vincita di un terno al lotto. Lui, no. «In realtà nella mia vita professionale non volevo vedere solo ginocchia di persone addormentate. E così al primo anno di specialità me ne sono andato, creando lo sconcerto intorno a me».
Come si è avvicinato all’omeopatia?
«È stato abbastanza casuale, un giorno in libreria mi è capitato tra le mani un testo di omeopatia. Inizialmente mi vergognavo di leggere simili cose, poi mi sono detto “l’autore di questo libro o è un genio o è un farabutto».
Evidentemente non era un farabutto.
«No. Ho scoperto una medicina difficile, splendida e complessa, dove non esistono malattie ma soggetti malati. Dire che un germe è responsabile di una malattia è dire una mezza verità. Se usassimo la metafora di un compito in classe potremmo dire che una soluzione è copiare l’altra è studiare. La terapia omeopatica è andare a lezione, il rimedio omeopatico è l’informazione».
Nell’ultimo anno ci sono state molte polemiche su cure omeopatiche, casi anche gravi che hanno portato alla morte di alcuni pazienti.
«C’è una cattiva omeopatia, come c’è una cattiva medicina tradizionale. Se uno è un cretino è un cretino lui, non l’omeopatia. L’omeopata deve essere un medico laureato e deve avere una strategia terapeutica e non deve dimostrare un teorema. Io sono ancorato al risultato. Il problema non è mai il giudizio, ma il pregiudizio».
Ma se viene da lei un paziente che è in cura con dei farmaci tradizionali, questi vengono sospesi?
«Se non è necessario, io non sospendo nulla. Bisogna sempre partire da lastre, esami del sangue e referti per poter fare una diagnosi corretta e impostare una cura. Il paziente è come una serratura di una porta chiusa, noi dobbiamo trovare la chiave per aprirla. Insomma, non c’è una cura standard. Ad esempio, tra i miei pazienti ce n’è uno che ha una malattia rara che cura con dei farmaci tradizionali, continua a prenderli ma con un dosaggio inferiore. Lo specialista che lo segue è molto sorpreso, però funziona».
Chi sono i suoi pazienti?
«Perlopiù sono donne e bambini, meno gli uomini che quando vengono si fanno trascinare dalle mogli. In genere il loro livello culturale è medio alto. Le eccezioni a questo identikit sono le persone che si avvicinano all’omeopatia come ultima spiaggia».
I suoi pazienti dicono al proprio medico che seguono una cura omeopatica?
«Questo aspetto fa parte del bagaglio culturale. Ho tanti pazienti che stanno bene ma non hanno il coraggio di dirlo al proprio medico di base. È un atteggiamento non corretto».
Le spese sostenute per una cura omeopatica sono rimborsabili dal sistema sanitario pubblico?
«Ci sono assicurazioni private , c’è una forma di detrazione fiscale ma non è rimborsabile dalla mutua. Se pensiamo che in Inghilterra c’è il Royal London Homoeopathic Hospital…».
I suoi colleghi medici le mandano pazienti?
«Adesso accade spesso, ma siamo molto lontani dal poter parlare di apertura».
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