Dalle auto “ecologiche” può ripartire l’economia
Incentivare le aziende che producono vetture a basso impatto ambientale può aprire nuovi scenari per le imprese. Intervista a Gioacchino Garofoli, docente dell'Insubria
«Crisi significa sfida, opportunità. Non c’è momento migliore di questo per creare nuovi mercati, nuovi prodotti ma bisogna rimboccarsi le maniche. Barack Obama ha dato un segnale importante di speranza, ha preso iniziative coraggiose. E noi? Quanto dobbiamo aspettare ancora per vedere una spinta vera al settore delle auto a basso impatto ambientale? Questo non si può fare dando soldi a un settore, tantomeno a una singola impresa». Gioacchino Garofoli, docente di economia regionale alla facoltà di economia dell’università dell’Insubria, non vede di buon occhio la possibilità di un intervento del Governo a sostegno della Fiat, almeno senza una strategia chiara per l’economia generale.
«Potrei comprendere meglio – spiega – degli incentivi europei, per le imprese che producono auto con minore impatto ambientale, che lavorano sull’ibrido, sui combustibili naturali e che partendo da questo riescano a mettere in modo una domanda di subfornitura specializzata su questo nuovo segmento del mercato. L’innovazione deve venire dal basso».
Non sembra facile in un momento come questo. Come arriverà la ripresa?
«E infatti non lo è, ma se non si dà linfa alle iniziative non si potrà mai uscire da questo pantano. Innanzi tutto è importante che vengano valorizzate le nostre risorse e la risorsa più grande che abbiamo sono le persone. Le persone conservano i saperi del territorio, hanno le idee, le competenze, la creatività. Il mondo del lavoro in Italia ora non permette ai giovani di crescere, di formarsi all’interno delle aziende. Un’impresa che propone troppi contratti temporanei o atipici non investe sul futuro».
Lo Stato francese aiuterà le aziende automobilistiche nazionali ma in cambio vuole la promessa di un impegno a investire sul territorio e sulla produzione in Francia. Cosa ne pensa di questa posizione?
«La Francia è molto attenta a questi aspetti ed è una scelta corretta. La questione vera riguarda l’investimento sulla qualità delle risorse umane. Le persone possono mettere in contatto i saperi, le professionalità, le specialità. È un costo sul quale le imprese non possono risparmiare, anzi penso che per le aziende europee e italiane in particolare la competizione sui costi sia ormai un campo impossibile».
La crisi che stiamo vivendo potrebbe mettere in discussione anche il modello delle piccole imprese che caratterizza il nostro tessuto economico?
«La piccola impresa è per sua natura più flessibile, più pronta al cambiamento. La crisi però ci obbliga a ripensare al modello organizzativo che funziona. I distretti industriali che hanno fatto innovazione hanno tutte le carte in regola per esserlo: è il momento degli anticipatori, ci sono tanti prodotti non standard che possono soddisfare nuovi bisogni, ci sono nuovi potenziali clienti. La sfida è creare uno scenario migliore di quello che avevamo prima della crisi».
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