Una pentola e un paio di scarpe contro il gelo dell’indifferenza
La testimonianza di Madre Augusta Negri delle suore della Riparazione di Varese. Che accoglie ogni sera i senza dimora della città offrendo loro un pasto caldo, un letto, vestiti, medicine. E soprattutto tanta solidarietà
I suoi simboli sono una pentola, delle scarpe e una bottiglietta d’acqua. Perché le 80 persone che ogni sera passano dal centro delle suore della Riparazione di via Bernardino Luini non sono in cerca solo di un pasto o di un posto letto. «A volte mi chiedono una pentola per potersi riscaldare nel freddo della notte con un po’ di tè, oppure delle scarpe: noi non abbiamo idea di quanti chilometri queste persone macinino al giorno. E dell’acqua: per bere, per lavarsi. Perché d’inverno le fontane sono ghiacciate ma il vero gelo è attorno a noi: è quello delle relazioni».
A parlare è Madre Augusta Negri delle suore della Riparazione di Varese, l’ordine che gestisce il centro di accoglienza di via Bernardino Luini dove ogni sera sono sempre di più i senza dimora, e senza documenti, che si ristorano alla mensa offerta dalle suore. E ci sono anche 10 posti letto per i richiedenti asilo politico. Ad aiutare le suore tanto volontariato e i seminaristi di Venegono Inferiore.
Suor Augusta, da dove provengono i vostri ospiti?
«Sono africani, dell’Africa centrale, ma anche dell’Africa del nord, marocchini, tunisini. Tante le donne dell’Est. Alcune anche con i bambini. Vivono in strada o in palazzi abbandonati. Ogni tanto li arrestano durante i blitz dei palazzi in cui vivono. Ma poi dopo pochi giorni tornano».
Di italiani ce ne sono?
«O sì, ne abbiamo. Anziani con pensione bassa che non arrivano a fine mese. Psicopatici, ex detenuti, disoccupati, tossici. E aumentano sempre più».
Cosa le chiedono queste persone?
«Lei non può immaginare quante fami diverse ci siano. C’è fame di cibo, certo. Ma c’è anche la fame di salute, di sicurezza, di affetto. Perché si tratta di persone che hanno lasciato nel loro paese famiglie e amici, che hanno paura: paura della provvisorietà, paura della povertà, paura della solitudine.
Cosa vuol dire per lei spendere la vita al servizio degli ultimi?
«Nessuno ci autorizza a dire che questi altri sono gli ultimi. Perché anche nelle nostre famiglie c’è una povertà di valori che a volte mi fa pensare che gli ultimi siamo noi, e non i più abbandonati, i più poveri, i più emarginati».
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