Quando sul confine si incrociavano ferocia e umanità

Due volumi di storici varesini ricostruiscono la vicenda del confine tra Varese e il Canton Ticino: dalla caccia agli ebrei alla fuga dei renitenti, al contributo della Chiesa ticinese nell'accogliere i profughi. Sabato 25 aprile presentazione al Circolo Angioj




Un esodo disarmato che varcava clandestinamente la frontiera per fuggire dalla barbarie nazifascista, un esodo di ebrei, renitenti alla leva dell’illegittimo esercito di Salò, antifascisti di ogni fede politica, sacerdoti compromessi nell’aiuto ai perseguitati. Il fenomeno, dall’8 settembre del ’43 alla fine del conflitto, riguardò tutta la lunga linea di frontiera tra la Confederazione elvetica e l’Italia. Il varesotto e il Canton Ticino, per l’accesso agevole da Milano e per la natura geografica del confine, divennero il punto di passaggio preferito da profughi e fuggiaschi. Teatro di una grande tragedia collettiva e di drammatiche vicende individuali.
In occasione dell’anniversario del 25 Aprile, alle ore 18 al Circolo Angioj di Marchirolo la Comunità Montana Valganna Valmachirolo promuove un incontro per ripercorrere alcuni momenti degli anni 1943-46 attraverso storie, luoghi e persone dei territori del Varesotto e Canton Ticino. Due libri opera di studiosi varesini faranno da filo conduttore della serata: “L’ora della carità. Il vescovo Jelmini, la Chiesa ticinese e i rifugiati (1943-1946)” (Armando Dadò Editore), scritto da Silvia Sartorio, e  “Maledetti figli di Giuda vi prenderemo!" La caccia nazifascista agli ebrei in una terra di confine Varese 1943- 1945” (Arterigere Edizioni), opera di Francesco Scomazzon.
Le grandi tragedie umane spingono gli uomini a dare il meglio e il peggio di sé, nella guerra che distrugge le forma della convivenza umana ancor di più. La caccia agli ebrei fu spietata, anteposta anche dalle autorità fasciste alle esigenze della guerra antipartigiana e contro gli alleati. Il titolo del volume di Scomazzon “Maledetti figli di Giuda, vi prenderemo!” è in realtà la cruda citazione di una crudele lettera del comandante della guardia nazionale della repubblica di Salò: «E’ così che la corsa verso il confine degli ebrei, che con la fuga nell’ospitale terra elvetica – rifugio di rabbini – tentano di sottrarsi alle provvidenziali e lapidarie leggi fasciste, è ostacolata dalle vigili pattuglie che indefessamente vigilano per sfatare ogni attività oscura e minacciosa di questi maledetti figli di Giuda». E tra loro c’era anche una ragazzina di quattordici anni, Becky Behar, ebrea di passaporto turco scampata alla prima strage di ebrei in Italia, consumatasi a Meina, nel novarese, dove alcune famiglie milanesi si erano rifugiate, fiduciose nella salvezza rappresentata dal vicino confine svizzero: furono bloccati da nazisti, la gran parte uccisi e gettati nel Lago Maggiore. I Behar si salvarono in quanto cittadini di uno stato neutrale e riuscirono poi a passare la frontiera: gli accolsero soldati che parlavano tedesco, ma erano militari elvetici. Non tutti furono così fortunati: in alcuni casi gli inflessibili ufficiali svizzeri respingevano i fuggiaschi, consegnandoli ai fascisti e a morte certa.
Tanti antifascisti varesini, militanti clandestini e sacerdoti, ma anche semplici contadini della sponda magra, aiutarono i perseguitati a fuggire. Ma non mancò chi approfittò della situazione disperata degli ebrei in fuga, tradendoli, vendendoli ai carnefici e ricavandone piccole doti su cui costruire un’esistenza tranquilla nel dopoguerra.
Dall’altro lato del confine, la Svizzera guardava con un misto di preoccupazione, compassione e solidarietà alle masse di persone in fuga. Nella sola notte del 16 aprile, alla vigilia della chiamata alla leva repubblichina (illegittima) per le classi comprese tra il 1907 e il 1925, oltre diecimila soldati si riversarono oltre confine, finendo internati nei campi predisposti dalla Confederazione. Qui molti militari fedeli al legittimo governo italiano vissero per mesi in uno stato di semiprigionia: gli sforzi della Svizzera furono non indifferenti, vista le difficoltà dell’isolamento legato alla guerra e per la delicata situazione diplomatica. Con la caduta della Repubblica dell’Ossola nell’ottobre del ’44, ad esempio, furono migliaia i civili di Domodossola e delle valli che fuggirono dalle temute rappresaglie e vennero accolti dalla Svizzera. Tra i protagonisti della solidarietà al popolo ebreo errante e ai perseguitati si distinse la Chiesa ticinese guidata dal vescovo Angelo Jelmini, il cui contributo è ricostruito nel volume di Silvia Sartorio. Molti sacerdoti ticinesi operarono ai limiti in clandestinità, esponendosi ad ogni rischio per traghettare verso la salvezza i fuggitivi. E la Chiesa ticinese promosse anche diverse iniziative culturali per gli esuli italiani, prevalentemente cattolici.




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Pubblicato il 24 Aprile 2009
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