Obama e la politica del reggiseno: il nuovo e il vecchio che avanzano
Una riflessione post - elezioni del senatore del Partito democratico Paolo Rossi
Non credo sia questo il momento per compiere, a caldo, l’ennesima disamina sul voto europeo e sulle elezioni amministrative. Fin troppo facile sarebbe, visti i risultati, accodarsi a chi ha letto, attraverso le cifre, la vagheggiata ma non avvenuta marcia trionfale del premier, la modesta tenuta del Partito democratico, una stretta relazione fra gli effetti (veri e presunti) della crisi e il successo di derive populistiche; di quelle forze, cioè, che, a scapito di specificità e differenze politiche, hanno da tempo instaurato un modello di comunicazione particolarmente efficace intorno ad alcuni temi sensibili, col risultato di una incoraggiante raccolta di consensi.
Credo, viceversa, sia opportuno scartarsi a favore di un’analisi che guardi più da vicino i segnali che si levano dalla consultazione elettorale, entro il perimetro del Centrosinistra.
È bene non sottovalutare infatti, fuori dal computo percentuale, alcune indicazioni nel merito che ci conducono a una riflessione politica più generale. Quanto avvenuto a Firenze o in Friuli ci pone al centro di un’insoddisfazione latente che ormai da tempo è emersa e chiaramente si avverte nell’elettorato.
Vi sono, naturalmente, ragioni di parte e ragioni di fondo. L’Italia è tradizionalmente schiava di logiche corporative che limitano fino a soffocare le possibilità di innovazione: è un Paese che non crede negli outsiders e nella meritocrazia, e che riesce a essere competitivo solo per aree ristrette, per singoli segmenti (da alcune eccellenze fino alla piccola-media impresa che ha rappresentato negli ultimi decenni oltre a una chiave di sviluppo anche un modello), ma che difficilmente riesce a esserlo nel suo insieme.
E non è difficile scorgere alcune ischemie e contraddizioni: il nostro è uno strano Paese, in cui Reggio Calabria viene elevata ad aerea metropolitana e Malpensa è una cattedrale nel deserto, dove scioperano i miliardari (i farmacisti contro le medicine da banco nei supermercati e le parafarmacie) e non si parla dei precari rimuovendo in buona sostanza le ragioni della crisi, dove si promuovono le ronde di cittadini ma le volanti della polizia giacciono nei garage senza carburante, dove l’interesse di alcuni si sovrappone agli interessi di molti (i tassisti che paralizzarono Roma), e in cui il senso stesso delle istituzioni fornisce continui e sorprendenti spunti per riflettere (una cosa è accogliere con calorosa disponibilità il leader libico Muammar Gheddafi, come merita un capo di Stato, altra cosa è insignire un dittatore con una laurea honoris causa o farlo parlare dinanzi al Parlamento).
Per quel che concerne il Partito democratico sarebbe un errore relegare a meri fenomeni "di moda" o "di costume", pure in una politica sempre più d’immagine e cosmetica, lo straordinario successo ottenuto da Debora Serracchiani e la preferenza che i Fiorentini hanno dimostrato nei confronti di Matteo Renzi a scapito di Lapo Pistelli. E sarebbe un errore grave, anche a prescindere dai contenuti apportati nella discussione politica su cui possiamo e dobbiamo confrontarci, disperdere simili voci: esse infatti risuonano come un segnale dissonante non già nel senso dell’antipolitica tout-court (la notte in cui tutte le vacche sono nere disegnata da Beppe Grillo nel suo Vaffa Day), ma come un vulnus che si insinua in profondità nell’incapacità di saper muovere e gestire il cambiamento, grazie anche a un mancato ricambio e al bisogno di alcuni volti nuovi, entro un orizzonte che si è sedimentato intorno a quelle certezze che è lo stesso sistema politico a enunciare nel suo complesso. Sarebbe un errore fare di questi esempi un’icona, per dimenticare in fretta, o ancor peggio, omologarli, come se la nuova politica abbisognasse di un cambio d’abito e nient’altro.
La lezione di Obama, nelle presidenziali statunitensi, è stata quella di aver saputo coniugare tradizione e novità, teleobiettivo e grandangolare, militanza e movimentismo. Se il Centrosinistra vuole superare i suoi errori e guardare avanti deve sapersi mettere in ascolto, sgonfiare le gomme se vuole procedere e vedere la luce alla fine del tunnel, ricominciare a guardare la società dalla periferia del cambiamento, dai dubbi che da essa si levano, non dalle certezze astratte raccolte nel passato e nel presente dei suoi monumenti.
Karl Kraus, il grande giornalista e intellettuale, scrisse una volta «Prestare orecchio ai rumori del giorno come se fossero gli accordi dell’eternità». Occorre abbandonare la presunzione di presumere; ritrovare la militanza tradizionale e utilizzare come una risorsa, anche quando essa diviene deriva critica, lo stimolo che proviene dalla stanchezza per la vecchia politica e le proposte di chi si batte per promuovere un cambiamento e per pensare a un mondo e a un modello diverso di società.
Questo è il compito di un grande partito riformista: ciò che il Partito democratico vorrebbe essere.
L’alternativa, tante volte esperita senza troppo costrutto è – chiedo venia al lettore in epoca di velinismo imperante – la "politica del reggiseno": contenere i prepotenti, sostenere i deboli, riunire i dispersi… Ma è un giocare in difesa. C’è dell’altro. Obama, per un verso, ma la Serracchiani e Renzi per l’altro, ci insegnano che se non alziamo la testa per vedere chi gioca al nostro fianco non solo non vinceremo, ma rischieremo di far melina confidando solo nei supplementari e nei rigori.
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