Gli imprenditori del tessile: «Il made in Italy? Una grande truffa»
Aziende da tutta Italia a convegno nella tessitura Aspesi per lanciare il grido d'allarme di un settore sempre più in crisi. Il tessile italiano serve solo a fare i campionari delle grandi griffe che, poi, vanno a produrre dove costa meno
Imprenditori del settore tessile da tutta Italia si sono riuniti all’interno di un capannone industriale di un’azienda di Busto Arsizio per dire una cosa importante: «Il made in Italy, così com’è, è una delle più grandi truffe mai architettate». Roberto Belloli (foto a sin.), a capo della tessitura Aspesi di Busto Arsizio, ha organizzato l’incontro e l’ha intitolato, provocatoriamente, "I contadini del tessile" invitando al dibattito Marco Reguzzoni, in rappresentanza della politica, e Dario Di Vico, giornalista economico del Corriere della Sera: «Chi comprerebbe a 200 euro una maglietta "made in Italy" se si venisse a sapere che è costata solo 2 euro produrla?». E’ questa la domanda che si pone Roberto Belloli poco prima dell’inizio dell’incontro che ha visto la partecipazione di imprenditori che sono venuti da tutto il centro e il nord Italia: Emilia Romagna, Piemonte, Toscana, Veneto e Lombardia avevano un rappresentante in sala.
FATTO IN ITALIA? – Il grande tema affrontato è la rintracciabilità del prodotto nel settore tessile, una necessità che potrebbe far sopravvivere aziende che faticano sempre di più a stare sul mercato a causa delle grandi griffe della moda che in Italia, ormai, acquistano solo i campionari da far replicare all’estero, quasi sempre nel far-east e a prezzi decisamente imbattibili e che portano il margine di guadagno dei grandi marchi alle stelle mentre le tessiture italiane si devono accontentare di margini ormai inesistenti. «La situazione che si è venuta a creare sta mettendo in ginocchio chi fa il vero made in italy – ha detto Belloli – mentre gli stilisti continuano a far produrre in Cina e in Thailandia applicando l’etichetta made in Italy». Quello che vogliono dire gli imprenditori italiani è che di nazionale, ormai, c’è solo il primo modello mentre tutto il resto viene prodotto altrove.
RICETTE SBAGLIATE – Gli imprenditori sono arrabbiati e non si sentono rappresentati: «Abbiamo invitato le associazioni di categoria ma qui non ne vediamo rappresentata nessuna». L’obiettivo è tornare a farsi sentire ma non per chiedere dazi, misure anti-dumping o la questua, dicono gli imprenditori, ma perchè si arrivi ad una legge semplice, chiara e che venga fatta rispettare – dicono tutti – una legge per la rintracciabilità del prodotto come il ministro Zaia ha fatto per l’olio italiano: «Caro Reguzzoni basta un testo con due articoli che dicano: articolo 1 – L’Italia tutela il made in Italy, articolo 2 – Puniamo il falso made in Italy». Parole semplici e chiare, dette da uno dei tanti imprenditori presenti e che raccontano tutti la stessa storia: «Tremonti parla di defiscalizzare gli utili, ma noi utili non ne facciamo più – raccontano in diversi – poi dice che sarà favorito chi investe in ricerca e in tecnologia e noi rispondiamo: chi investe se non c’è nessuno che compra?». Il problema è questo: il settore tessile è un caso a parte, dove le regole sono saltate da tempo e dove serve un ragionamento particolare.
LA PROVOCAZIONE – Dario Di Vico veste i panni del provocatore e difende gli stilisti e le griffe: «Gli stilisti sono dei geni – ha detto il giornalista – starei attento a parlare di grande truffa altrimenti potreste perdere proprio tutto. Dal punto di vista economico le griffe italiane hanno creato un valore aggiunto che non esiste e pensate solo dal punto di vista pubblicitario quanto pesa la moda. Il problema è un altro: esiste uno squilibrio troppo forte all’interno del settore tra voi, che state alle base del sistema moda, e loro che hanno margini di guadagno enormi». Gli imprenditori ci mettono poco a ribaltare questa visione: «Allora sovvertiamo la situazione – dice un imprenditore – come faranno a vendere il made in Italy quando non ci sarà più chi gli fa i campionari? Quelli che ci rubano regolarmente con promesse di produzioni su vasta scala e poi finiscono in mano ai cinesi che copiano da noi?». Accuse pesanti al mondo della moda e un chi va là al bustocco Michele Tronconi, presidente del Sistema Moda Italia: «Ho molta stima di Tronconi – ha detto Belloli – ma è chiaro che noi non pesiamo allo stesso modo nel sistema generale».
LA POLITICA – La sintesi di Reguzzoni arriva, alla fine, come una promessa di fare qualcosa di importante: «Avete tre problemi – dice – dei quali solo uno può risolverlo la politica: rappresentanza, comunicazione, norme. Per quanto riguarda l’ultimo io sono disponibile a firmare un disegno di legge sulla tracciabilità del prodotto tessile italiano: avete ragione voi a dire che se una maglietta griffata di un marchio italiano è prodotta in Cina non può essere considerata made in Italy ma prima di andare a spiegare in Europa questa cosa dobbiamo essere uniti in Italia su questo punto, con una normativa rigida che va fatta rispettare. Su rappresentanza e comunicazione dovete lavorare voi – dice infine rivolgendosi agli imprenditori – unendovi sotto il cappello di poche idee ma chiare, a quel punto anche la strada per ottenere le norme sarà molto facile».
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