Henry, il parcheggiatore con la laurea in economia
Dalla Nigeria a Milano, fino ad una fabbrica di Novara, e con la crisi ad un parcheggio di Busto Arsizio: la parabola di un giovane padre di famiglia africano, qualificato ma non riconosciuto in un Paese affamato solo di manodopera base
Prendete un parcheggio assolato in una mattina di fine luglio, a Busto Arsizio. Diciamo quello di una via in pieno centro città. Inserite nel contesto un volto evidentemente… non della zona, ecco, che si aggira intorno al parchimetro, scambiando brevi frasi smozzicate con i frettolosi passanti, delle mercanzie di dubbia utilità per le mani. Avete indovinato: è un "parcheggiatore". Ovviamente abusivo. Avere sottomano qualcuno che ha da cambiare cinque euro in metine in cambio di una "cresta" pari a meno del prezzo di un caffè, in fondo, può tornare comodo. Di vigili non c’è l’ombra: solerti nello stangare l’automobilista indisciplinato e nel rilevare ogni tamponamento, lo sono meno nel tenere lontano dai posteggi gli abusivi.
Nascono così le quattro chiacchiere che non ti aspetti. Henry, questo il nome del nostro personaggio, ha 34 anni ed è nigeriano. Oggi è qui a spillare qualche monetina dai passanti, ma non è certo una vocazione la sua: piuttosto la dura necessità di raggranellare qualcosa per integrare i magri redditi di casa. «Fino a qualche mese fa facevo il mulettista in una fabbrica vicino a Novara» ci racconta, il viso una maschera d’ebano in cui spicca la dentatura brillantissima degli africani. «Oggi non c’è lavoro. O quasi» dice, dapprima nel suo italiano ancora qua e là claudicante, poi in buon inglese. Vive nel nostro Paese da quattro anni, è arrivato con un ricongiungimento familiare: la moglie era arrivata a Milano due anni prima di lui. Ha due figli da mantenere. «Si fa quel che si può: due-tre giorni la settimana faccio un paio d’ore di volantinaggio per dei supermercati» aggiunge. «Non è che conosci qualcuno che offre un impiego?»
Si potrebbe pensare che Henry sia uno dei tanti immigrati senza volto nè nome, e soprattutto senza istruzione nè famiglia alle spalle, fuggiti dall’abbrutente miseria di qualche angolo preda di conflitti o di una carestia. Non è propriamente così. «Ho studiato economia alla University of Benin a Benin City, e lavoravo in banca, like that» fa segno puntando con l’indice all’istituto di credito dall’altra parte della strada. Se capiamo bene, viene dallo Stato del Delta, nel Sud popolatissimo: dice che la sua etnia si scrive Midobirt, ma lo pronuncia Midobèt. È cattolico, ma dice, la religione dalle sue parti è una questione di famiglia: non mancano musulmani o seguaci di altre confessioni cristiane. Alle scuole superiori si è diplomato presso una computer school, aggiunge. E in famiglia, di sette tra fratelli e sorelle lui è il maggiore: non l’unico laureato. In Italia però la sua preparazione accademica vale zero. Non è riconosciuta, a differenza di quanto avviene, almento tecnicamente, in vari Paesi europei e negli Stati Uniti: lui fa l’elenco con sicurezza.
«Sono stato un po’ dovunque, ma dove mi sono trovato meglio, umanamente, è l’Italia. Il problema qui sono le istituzioni, il governo, l’economia che non va. This is a closed country» fa segno serrando il pugno, e si riferisce alla burocrazia soffocante. «Ma la gente è ospitale e amichevole verso us foreigners, noi stranieri, questo va detto. Mi piace viaggiare, vedere gente e posti nuovi e diversi: ma ripeto, dove mi sono trovato meglio è qui in Italia». Degli italiani preferisce i meridionali: sono i più aperti, e, contrariamente al luogo comune, quelli con cui si lavora di più e meglio. «A Napoli, a Bari sono sempre pronti a darsi da fare con te. Quelli della pausa caffè li trovi a Bologna, a Torino, a Milano…». La Lega Nord non sarà felice di saperlo.
L’affetto che Henry mostra per l’Italia scalda il cuore in tempi in cui facciamo di tutto per gridare al mondo che "la barca è piena", un po’ come gli svizzeri durante la seconda guerra mondiale.
Henry è stato fortunato. Lui la barca non l’ha vista nemmeno da lontano. E’ arrivato regolare, in aereo. «Quelli che fanno le rotte di terra», le carovane di moderni schiavi che si trascinano attraverso la Transhariana dal Niger alla Libia, quelle descritte da Fabrizio Gatti, «sono quelli che non hanno istruzione» taglia corto.
Ma perchè vanno via anche quelli che ce l’hanno? gli chiediamo. «Il mio sogno è di tornare un giorno in patria con la famiglia» confessa, la nostalgia di casa c’è. «L’Africa non è vero che non ha soldi, ne girano e tanti, ma c’è una corruzione enorme». Il grande male del Continente nero, l’assenza di un vero Stato di diritto che garantisca sviluppo reale a beneficio di tutti. laddove lo sviluppo è ancora possibile. Qui si arranca, ma l’arrancare italiano è tuttora preferibile allo "sviluppo" africano.
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