Le mie giornate a guardare negli occhi il male

Un oncologo racconta la diagnosi, la cura, il rapporto coi pazienti affetti da tumore e che lottano per la vita. “Eppure il cancro ha numeri sempre alti, da cui, però, si guarisce sempre di più”

Pubblichiamo il racconto di un medico che spiega le sue giornate, le felicità e lo sconforto di persone che vincono e perdono contro il cancro
 
Vorrei avere la capacità di parlare del mio lavoro di medico oncologo e delle persone con cui mi rapporto ogni giorno senza la facile retorica con cui spesso è facile permeare i racconti che riguardano chi si ammala di tumore. Faccio sempre fatica a leggere gli epitaffi scritti per chi è passato attraverso il “male del secolo” o è morto per “la malattia incurabile”. Senza nominarla, per paura che possa in qualche modo contagiarci o per timore che venga evocata dalle profondità ove giace sopita.
Eppure il cancro ha numeri sempre alti, da cui, però, si guarisce sempre di più.
Più che dell’aspetto malattia vorrei scrivere di quello che rappresenta, del percorso che insieme si compie toccando ogni tappa, vivendo la luce e la notte dei momenti che si susseguono e dando ad essi il nome che gli spetta.
Il nome della diagnosi, per cominciare, quello che più spaventa e che d’un tratto scompiglia il quotidiano di chi ne viene coinvolto. Ho visto reazioni diverse, che parlano del carattere che ciascuno porta con sé: rabbia, desolazione, abbandono, lotta, razionalità, protezione, negazione, fuga. Poi il momento delle cure, con le difficoltà e le speranza che camminano a braccetto. Mi colpisce sempre la dignità di alcune persone nel vivere questa esperienza, nel sentirsi feriti, affaticati, infastiditi dal sottofondo di nausea, ma sempre con la forza di guardarmi negli occhi e chiedere quale sarà il prossimo passo. Tra i tanti volti ricordo quello di Marcofabio, giovane ricercatore, che prima di affrontare una terapia chiedeva con ironia sottile e con fiducia quale fossero i farmaci che “Panoramix” stava preparando… O quello di Amer, che mentre spiegavo gli effetti collaterali mi diceva di piantarla e di non sprecare il fiato, perché gli stavo ripetendo le stesse frasi della volta precedente, e se ne andava via in fretta e scocciato, salvo poi mandare un messaggio al dottore “gobbo” quando la sua Fiorentina provava a fare lo sgambetto alla mia Juventus…
O la capacità di Annalisa di raccontarmi le ricette che le sue amiche le preparavano quando, a causa delle cure, la sua bocca poteva mangiare solo cibi frullati e dai sapori non troppo decisi.
Sono tutte esperienze in cui sommessamente mi sento coinvolto, e da cui cerco di trarre qualche insegnamento sia per la vita, sia per la capacità di diventare un medico più capace di leggere le situazioni. Ho imparato che prendersi cura del proprio paziente è prima di tutto saper effettuare le scelte migliori e scientificamente valide dal punto di vista medico, ma anche saper guardare alla interezza della persona che ho davanti, saper leggere le richieste che mi esplicita nelle forme più disparate, più o meno razionalmente o consciamente. Sapere per esempio capire cosa si nasconde dietro alla ansia che fa alzare la pressione ogni volta che entra nell’ambulatorio, saper intavolare un discorso chiaro e preciso sulla malattia, senza cadere negli estremi della protezione e delle mezze verità da un lato o della fredda comunicazione di diagnosi e prognosi dall’altro. E’ un compito difficile, che spesso prendiamo sottogamba, travolti dalla quantità di lavoro o burocrazia (talvolta mi riscopro, in una visita, ad aver guardato molto di più il computer che non la persona che ho davanti!).
Nello specifico dei tumori che curo, più frequenti tra gli uomini, mi trovo talora a guardare con stupore le donne che stanno accanto ai loro mariti o ex compagni. Sono coinvolte dal percorso senza esserne il protagonista, premurose e sensibili senza che queste attenzioni vengano riconosciute dal partner, perché è normale essere più introspettivi o nervosi quando si sta male per le terapie. 
Le ultime tappe che si percorrono sono quelle dei controlli, che portano con sé l’esito delle cure e la scelta di continuare con le visite periodiche o di avviare nuovi trattamenti. Nella asetticità dell’ambiente ospedale, il referto dell’esame o il riscontro del controllo sono uno dei momenti più pregni di attesa, la cui intensità emotiva è tamponata dalle mura della stanza di visita. Giustamente, mi dico, non ci si deve lasciare trasportare da quanto sta passando il paziente, anche per non perdere la “freddezza” nell’operare le scelte mediche migliori per lui. Talora però, almeno nel pensiero, ci si sente parte del percorso fatto e si è accanto alla persona nello stringersi in un abbraccio per la notizia di una ripresa della malattia o nel festeggiare l’esito negativo di un esame che conferma la scomparsa del tumore.
 
 
Paolo Bossi

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 22 Settembre 2009
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