Anche la nebbia lascia spazio alla leggenda Kirwan
L'ex ala degli All Blacks ha diretto un allenamento del Varese sul campo di Giubiano. «In questi club si ritrova il vero rugby; anche io ho iniziato come questi ragazzi»

La nebbia, appunto, lascia il posto al rugby quando John Kirwan raduna la squadra e inizia a spiegare il suo verbo, in un modo imprevisto. «Fatemi vedere come ballate in discoteca» chiede ai giocatori, che dopo un po’ di empasse iniziano a sciogliersi. «Stasera studiamo l’attacco – prosegue il mito – e l’attacco nel rugby è come il ballo. La difesa invece è come un ringhio: bisogna essere sempre pronti a passare da una situazione all’altra»
Parole precedute, poco prima, da quelle di un’intervista rilasciata volentieri ai media presenti; niente divismo, niente passato illustre, niente atteggiamenti da parte di uno che, volendo, potrebbe anche permetterseli. Qui i riflettori sono accesi per tutti allo stesso modo, e il fatto che John abbia alzato una coppa del mondo sembra quasi un dettaglio.

«Quando indossi quella maglia una volta, la indossi per la vita. Ed è una sensazione stupenda, un sogno che ho realizzato a 19 anni e che è durato dieci stagioni. La gente è con te, ti spinge a fare sempre meglio; sono momenti indimenticabili per chi come me ha iniziato a giocare a cinque anni. E del resto in Nuova Zelanda i bambini prima pronunciano “All Black”, poi dicono altre parole… come mamma o papà».
E con la maglia tutta nera c’è anche l’Haka.
«Vedete, noi l’haka iniziamo a farla in salotto, nelle partitelle tra amici, scherzando e sognando di arrivare un giorno a celebrarla in nazionale. Ecco, quando la danzi con gli All Blacks la prima volta, senti un’emozione che ti rimane indelebile, per tutta la vita».
Nella sua carriera c’è anche una meta celeberrima, segnata proprio all’Italia ai Mondiali ’87. Se la ricorda?
«Sì, perché gli azzurri erano tutti miei amici e mi fecero passare: sto pagando cene di ringraziamento ancora oggi! Scherzi a parte, di quel Mondiale ho ricordi splendidi: avevo un preparatore personale ed ero andato ad allenarmi nelle foreste. Ero abituato a scartare i fusti d’albero, fermarmi era davvero difficile».

«No, anzi è molto bello, perché lavorare con un gruppo acerbo permette di osservare i miglioramenti partita dopo partita. Bello vedere che il tuo lavoro sta dando dei frutti, abbiamo già guadagnato quattro posizioni nel ranking mondiale e ho tempo fino al 2011 per far crescere ancora la squadra».
Lei ha allenato anche gli azzurri. Come giudica oggi l’Italia ovale e la polemica seguita all’ingresso in Celtic League?
«La nazionale mi piace, la scorsa estate ha disputato ottimi test e ora è attesa da un’altra tornata importante in cui sfiderà proprio la Nuova Zelanda (14 ottobre a San Siro, ndr). Bisogna avere pazienza, capire che ormai l’Italia è tra le migliori dieci squadre del mondo e quindi pensare che ormai deve sfidare le grandissime, con cui si può anche perdere. Per quanto riguarda la Celtic League, penso che sia necessario avere le squadre in posti dove è garantita la continuità. In questo senso, Treviso e Viadana danno maggiori garanzie; Roma in futuro potrebbe farcela ma in questo momento le certezze sono altrove. Poi purtroppo sappiamo che, insieme al calcio, la politica è lo sport nazionale italiano e questo non aiuta il movimento».
Chiudiamo con un’occhiata a Varese: come si trova quando è chiamato ad allenare in occasioni come questa?
«A mio agio, senza dubbio. Il rugby è questo e anche io ho iniziato su un campo simile. Qui c’è la base fondamentale, su cui bisogna lavorare in chiave futura. Certo, giocare davanti a migliaia di persone è fantastico, ma prima di arrivare lassù bisogna passare anche dal rugby genuino, quello che si trova in società come la vostra».
A tal proposito, il programma del Rugby Varese sarebbe quello di salire in Serie A senza tradire i principi di assoluto dilettantismo che ne hanno caratterizzato la storia. Secondo lei, si può fare?
«Il rugby professionistico è ancora giovane e per fortuna fino a ora non vedo le storture del calcio: nella vostra Serie C c’è gente più pagata di un All Black e questo la dice lunga. Io credo che si possa fare strada anche rimanendo dilettanti, perché questa condizione riguarda ancora il 90% del rugby: provare si può».
TAG ARTICOLO
La community di VareseNews
Loro ne fanno già parte
Ultimi commenti
Bruno Paolillo su Ottant’anni fa Hiroshima: la memoria della bomba che cambiò il mondo
PaoloFilterfree su Vigili del fuoco, organico solo sulla carta: Candiani denuncia l’abuso delle leggi speciali. "Vuote anche le case Aler in convenzione"
Alessandro Zanzi su Crescono le diagnosi di disabilità tra i minori di Varese: +500% in 10 anni
Lina Hepper su La Provincia di Varese studia un gestore unico dei rifiuti: "Una strategia a lungo termine per anticipare il futuro"
Cloe su Quattro eccellenze varesine premiate dai Travelers' Choice 2025 di TripAdvisor
lenny54 su Turisti ebrei con la kippah aggrediti in autogrill a Lainate
Accedi o registrati per commentare questo articolo.
L'email è richiesta ma non verrà mostrata ai visitatori. Il contenuto di questo commento esprime il pensiero dell'autore e non rappresenta la linea editoriale di VareseNews.it, che rimane autonoma e indipendente. I messaggi inclusi nei commenti non sono testi giornalistici, ma post inviati dai singoli lettori che possono essere automaticamente pubblicati senza filtro preventivo. I commenti che includano uno o più link a siti esterni verranno rimossi in automatico dal sistema.