“Sono emigrato per amore della matematica”

Alessandro Chiesa è partito a 17 anni e da cinque studia al MIt (Massachusetts Institute of Technology). Racconta per la prima volta la sua esperienza e le vicende che lo videro coinvolto in una storia di hacker

Alessandro ChiesaUn anno fa si era trovato al centro di una vicenda giudiziaria che fece discutere la stampa di mezza America. Avevamo seguito la storia di Alessandro Chiesa che, insieme a tre compagni di corso del Massachusetts Institute of Technology (Mit),  aveva trovato una falla nel sistema di biglietteria della metropolitana di Boston. Gli studenti avevano passato un brutto quarto d’ora e poi ne erano usciti vincenti.
Siamo stati a trovare Alessandro proprio nelle aule del prestigioso Mit a Cambridge. Una terra che trasuda cultura e tecnologia ovunque. Intorno a Boston, infati, sorgono 79 università tra cui Harvard. C’è una presenza di istituti di ricerca unica al mondo. Per quanti hanno una passione per la matematica e l’informatica il Mit è il mito.
«E perché no?» Risponde sereno Alessandro alla prima domanda del perché si trovi lì.
A 17 anni ha lasciato Varese dopo aver frequentato la Scuola Europea. «Per me quella era stata una scelta scontata perché mia nonna ci ha insegnato per trenta anni. Una volta finiti quei corsi ho fatto un esame in una scuola americana a Opera vicino Milano e ho affrontato e superato i test di ingresso del Mit. Non c’è niente di difficile. Può farlo chiunque».
Sarà, ma se poi vai a guardare quanti italiani frequentano quei corsi, questi li conti sulla punta delle dita di una mano. «Sì, ma ci sono diverse ragioni, – continua a raccontare Alessandro, – perché noi siamo molto mammoni, ma soprattutto abbiamo università prestigiose. Basti pensare al Politecnico di Milano».
Alessandro ChiesaAlessandro nel frattempo ha conseguito due lauree in matematica teoretica e computer science and engineering. Di questa seconda ha frequentato diversi corsi in cinese. Attualmente frequenta un master in Theory of Computation e si interessa di fondamenti di computer science, crittografia e algoritmi.
Come è stato arrivare qui a 17 anni?
«È un altro mondo, ma mi sono trovato subito bene. Di fatto si vive qui, nel circondario dell’università e questo permette di risolvere tanti problemi. Non è come in Italia, qui ti inserisci subito e hai tante opportunità per studiare».
Ma sei davvero convinto che possa venire chiunque?
«Ma si, basta avere la volontà. Certamente c’è il problema della lingua, ma risolto quello non vedo altre difficoltà. Ci vuole una certa dose di creatività, passione per lo studio e per quello che fai».
Come si svolge una tua giornata e cosa fai oltre allo studio?
Massachusetts Institute of Technology«Prima che mi venisse un’ernia al disco facevo canottaggio. È una disciplina bellissima sia da un punto di vista fisico che psicologico. Ha una filosofia che aiuta al rigore, a sopportare e superare ogni difficoltà. Poi oltre a questo mi ha permesso di conoscere e gareggiare con grandi campioni. Questo è un aspetto che in Italia non esiste. Nelle università americane lo sport è collegato molto allo studio. Per il resto a me non interessa il tempo libero. Ho una ragazza e insieme abbiamo la passione per quello che facciamo qui».
Qual è la cosa più divertente qui al Mit?
«I professori. Sono tutti brillanti ed eccezionali. I nostri corsi sono tutti gratis e online, ma la differenza la fa proprio stare qui, respirare quest’aria, interagire con i docenti e gli altri studenti. C’è un processo di osmosi. Qui nascono progetti di grande livello e possiamo davvero fare ricerca».
Che progetti hai per il futuro?
«Ora di finire il master e poi di fare il dottorato di ricerca per i prossimi cinque anni. Stiamo valutando se restare qui al Mit o andare in un altro campus. Mi piacerebbe molto lavorare nella ricerca, ma vedremo…».
Massachusetts Institute of TechnologyOltre allo studio hai mai lavorato?
«Si ho fatto diversi lavori perché qui abbiamo tre mesi in estate e diverse settimane di pausa anche in inverno. Ho approfittato anche per stare in Cina diverso tempo e imparere bene la lingua».
Non ti manca l’Italia, Varese?
«Mi mancano le montagne e i laghi. Più la Svizzera che non Varese. Mi piacerebbe andare a vivere lì più che tornare in una città».
Come è nata la storia dello scontro con la società della metropolitana di Boston?
«Ma, su quella storia sono state raccontate tante cose non esatte. Noi non siamo mai stati assunti, ma nell’accordo stragiudiziale il giudice ha imposto di fornire dettagli del nostro lavoro».
Ma che cosa era successo?
«Dopo anni di lavoro l’MBTA aveva cambiato il sistema di biglietteria e introdotto T-Charlie, una tessera con una banda magnetica che permette di capire se il biglietto è nuovo. Noi, all’interno di un esame, abbiamo studiato tutti i meccanismi scoprendo che c’era un modo di violare la protezione».
E come mai venne fuori tutto quel clamore?
«Perché loro avevano speso montagne di dollari e non potevano accettare che degli studenti li mettessero in crisi. Insomma si erano trovati con giù le braghe e invece di preoccuparsi di tirarsele su se la presero con noi. In fondo era facile eravamo solo ragazzini che studiavano al Mit».
Massachusetts Institute of TechnologyMa perché la stampa diede tanto risalto alla cosa?
«Beh la questione era davvero delicata. Noi avevamo informato la società che avremmo presentato la ricerca in una conferenza sulla sicurezza che si tiene ogni anno a Las Vegas. Questo faceva parte del nostro lavoro di studio. Non ci era stato posto alcun ostacolo. Poi due giorni prima si sono svegliati e hanno presentato un’ingiunzione al giudice perché bloccasse la nostra presentazione. Il giudice diede tre giorni di sospensiva e la nostra presenza alla conferenza saltò. La cosa è grave perché era una reazione spropositata, un provvedimento simile negli Stati uniti si prende per casi rarissimi perché mette in discussione il primo emendamento e la libertà di ricerca. Che senso avrebbe farla se poi non si potesse renderla pubblica? Non è solo una questione di principio, ma l’elemento centrale della democrazia statunitense. Credo che questo potesse diventare un precedente pericoloso. Ecco perché tanta attenzione».
E voi come vi sentivate?
«Male, perché abbiamo passato ore al telefono con gli avvocati ed eravamo preoccupati. Poi per fortuna la cosa si è risolta».
E come?
«Il giudice non ha accettato la loro richiesta di ingiunzione per cinque mesi e noi abbiamo collaborato fornendo loro le procedure che mettevano a repentaglio la sicurezza».
Alessandro Chiesa durante una conferenza stampaMa è davvero così a rischio ogni sistema informatico?
«Io mi interesso di matematica teoretica e non sono particolarmente affascinato dalla sicurezza, però è chiaro che molte aziende preferiscono sistemi di proprietà sviluppati da loro programmatori. Questo modo di lavorare coinvolge qualche decina di persone quando va bene. Così una volta realizzati e resi operativi, basta qualche ora e vengono violati. Sono troppe poche le persone che li hanno testati e che ci hanno lavorato. Si spendono così montagne di denaro convinti che questo modo di lavorare sia più sicuro e invece non è vero. Se guardiamo ai sistemi open source è tutto diverso perché ci lavorano decine di migliaia di persone e si conosce tutto di quelli e per questo ogni loro sviluppo è più sicuro».
Come vengono visti gli italiani qui?
«Siamo troppo pochi e non siamo conosciuti a differenza dei rumeni che qui sono considerati dei geni».
E che consiglio daresti ai "nostri" ragazzi?
«Venite a studiare qui».

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Pubblicato il 29 Ottobre 2009
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