Stranieri di giorno. Non ne possiamo fare a meno
Ventimila varesini passano la frontiera ogni giorno per lavorare nel Canton Ticino. Negli ultimi trent'anni questa realtà è profondamente cambiata
“Ci siamo rotti. I frontalieri non sono evasori fiscali”. Cartelli, striscioni e slogan come non si erano mai visti. Circa mille lavoratori italiani alcuni giorni fa si sono ritrovati sotto il consolato del nostro paese a Lugano. La protesta era scattata da alcuni provvedimenti previsti per lo “scudo fiscale” che di fatto non riguarda in nessun modo i frontalieri e che prevede semplicemente la compilazione di un modulo. Attività prorogata ora al 30 aprile prossimo.
Ma chi sono i frontalieri, quanti sono, che cosa fanno?
La prima questione da affrontare riguarda i numeri. Non è affatto un fenomeno marginale da nessun punto di vista. Nel Canton Ticino alla fine di settembre lavoravano 44.400 frontalieri e poco meno della metà provenivano dalla provincia di Varese. Se consideriamo che in quel territorio vivono appena 300mila persone si capisce bene come visto con occhi ticinesi il fenomeno ha una grande rilevanza, ma non da meno affrontato con occhi varesini perché porta sul nostro territorio una ricchezza significativa.
In termini numerici la realtà del frontalierato negli ultimi trent’anni ha avuto evoluzioni sostanziali.
Nel 1980 erano 30mila i lavoratori che passavano la frontiera e fino al 1990 c’è stata una sostanziale crescita fino ad arrivare a 40mila unità. Il decennio successivo, complice una profonda crisi economica in Ticino il numero si è ristretto fino al minimo storico raggiunto nel 1999 con meno di 28mila lavoratori. Un dato che a partire dal 2000 ha iniziato a crescere nuovamente fino ad arrivare al massimo storico dei mesi scorsi con oltre 44mila lavoratori.
L’evoluzione di questa realtà non si ferma però al mero calcolo numerico.
La figura del frontaliere in questi trent’anni è cambiata in modo radicale.
Da uno studio dell’istituto di statistica elvetico, nel 1990 il 62% dei lavoratori italiani in Ticino era non qualificato, il 28% mediamente qualificato e per tre quarti i settori in cui questi venivano impiegati era legato all’edilizia e all’industria manifatturiera. Ora siamo in presenza di lavoratori molto più qualificati e i settori trainanti sono quelli della logistica, delle biotecnologie e dell’informatica. C’è una sempre crescente presenza nel settore della formazione dove le tre università elvetiche assorbono centinaia di docenti italiani.
Insomma, come afferma Siegried Alberton, docente e ricercatore di scienze aziendali e sociali alla Supsi, “dei frontalieri non possiamo farne a meno”. La sua analisi risponde a una domanda delicata perché anche in Ticino la crisi si fa sentire e ci sono forti tensioni sociali e politiche con una Lega dei ticinesi che spesso insulta i colleghi di oltre frontiera minacciando una serie di ritorsioni pesanti. Si consideri che il Ticino è uno dei pochi cantoni elvetici che bocciarono i patti bilaterali perché considerati pericolosi per l’economia del territorio. Di ben altro parere imprenditori e studiosi perché hanno chiaro che l’evoluzione economica e il modello di sviluppo elvetico non può prescindere da un rapporto forte con il nostro paese. Il blocco dei frontalieri si trasformerebbe in clamoroso autogol, spiega sempre Alberton. “Il tasso di disoccupazione sarebbe probabilmente ancora più elevato, perché se sparissero certe attività che funzionano bene, sparirebbero posti di lavoro anche per gli autoctoni”.
Da una parte un quadro normativo meno restrittivo e dall’altra anche una terziarizzazione dell’economia stanno portando a una diversificazione della domanda di personale frontaliero.
Un tema che resterà caldo per molto tempo e a cui in Italia si presta poca attenzione e di cui si conosce ben poco. Un errore clamoroso perché circa ventimila lavoratori ogni giorno passano la frontiera per lavorare in varie realtà. Un errore però anche da un punto di vista sociale e culturale perché il Canton Ticino, come altri paesi stranieri, attrae sempre più professionalità alte in cui anche la ricerca ha un peso notevole. A differenza di altre realtà lontane, qui abbiamo a che fare con una nazione territorialmente contigua con cui poter sviluppare relazioni interessanti.
Lasciare questo tema solo alle analisi dei ticinesi costituisce un grave errore e un perdita di opportunità interessanti per il nostro territorio al di là della già importante attenzione verso quei ventimila lavoratori.
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