Cooperazione Italia “Cenerentola” nel mondo

Se ne è parlato al convegno “Lotta alla povertà”, organizzato dalla Diocesi di Milano. Itagli agli aiuti pubblici allo sviluppo decisi dalla Finanziaria «scelta miope»

«I tagli delle ultime Finanziarie hanno ridotto la cooperazione internazionale ai minimi termini. Una
scelta miope, giustificata con il pretesto della crisi economica, ma che in realtà sminuisce soltanto il prestigio internazionale del nostro Paese e compromette la capacità di realizzare concretamente autentiche politiche per la sicurezza». A denunciarlo, stamattina, nell’ambito del convegno “Lotta alla povertà. Oltre la crisi, appunti per il futuro”, organizzato da alcune realtà della Diocesi di Milano al centro Schuster, è stato l’economista Riccardo Moro, direttore della Fondazione Giustizia e Solidarietà, l’organismo nato dalla campagna per la riduzione del debito dei paesi poveri promossa dalla Conferenza episcopale italiana nell’anno del Giubileo.
La legge Finanziaria approvata a dicembre ha destinato alla cooperazione allo sviluppo (legge 49/87) 326 milioni di euro, meno della metà di quanto previsto nella finanziaria 2008 e solo cinque milioni di euro in più rispetto al 2009, (un incremento, però, solo apparente se si tiene conto dell’inflazione). La cifra è inferiore a quella spesa solo per organizzare il G8 all’Aquila (costato 400 milioni di euro) e lascia ben poco margine alle Ong per nuove iniziative, essendo quei fondi in parte già impegnati: 123 milioni serviranno, infatti, per pagare i progetti presentanti negli anni passati.
«A fronte di un impegno sostanzialmente stabile in materia di missioni militari, l’Italia ha avviato da alcuni anni un processo di pesanti riduzioni nei confronti degli aiuti e della cooperazione allo sviluppo – ha spiegato Moro –. Ora con questo ulteriore taglio la percentuale del Pil destinata alla lotta contro la povertà scende allo 0,1%, mentre il nostro Paese aveva assunto impegni vincolati per stanziare entro il 2010 lo 0,51% e
raggiungere lo 0,7% nel 2015. Un fatto grave perché la politica estera non si fa solo con i militari e gli accordi commerciali, ma anche con la cooperazione».
Secondo il direttore della Fondazione Giustizia e Solidarietà il disimpegno su questo fronte diminuisce le chance italiane di giocare il ruolo che spetterebbe al nostro Paese in ambito internazionale. Una diminuzione di prestigio che avrebbe ricadute ben oltre l’ambito specifico dell’intervento umanitario, ma riguarderebbe la
possibilità di incidere su importanti scelte geopolitiche. «Vedo sempre più difficile che l’Italia possa entrare a far parte, ad esempio, del gruppo dei Paesi che sta trattando con l’Iran o che possa avere ancora voce in capitolo nei summit internazionali ora che il G20 sembra destinato a soppiantare il ristretto club degli otto Grandi». Insomma, senza una politica di aiuti il nostro Paese «rischia di diventare una Cenerentola in un mondo sempre più complesso, dove i vecchi equilibri sono destinati ad essere scardinati dall’affacciarsi di economie emergenti».
Tuttavia secondo Moro non basta rilanciare decisamente la cooperazione internazionale, bisogna anche modificare la qualità degli interventi umanitari. «Non è più sufficiente costruire qualche ospedale, distribuire aiuti alimentari, scavare qualche pozzo per l’acqua. La cooperazione di stampo paternalistico è ormai definitivamente tramontata. Bisogna suscitare processi di sviluppo in cui siano protagoniste le popolazioni locali. E per farlo più efficacemente che nel passato, dobbiamo anche sostenere quei processi di aggregazione che si stanno formando nei vari continenti, in Africa, in America Latina anche, seppur più debolmente, in Asia». «Immagino – ha continuato l’economista – che nel futuro la cooperazione internazionale possa avvenire tra l’Unione Europea e l’Unione Africana, non solo tra i singoli Paesi».
Combattere la povertà nel Sud del mondo è anche l’unico modo per perseguire la sicurezza. «Favorire lo sviluppo dei paesi poveri è il solo strumento realmente efficace per contrastare il terrorismo internazionale che trae linfa proprio dal sottosviluppo e dalla disperazione di intere popolazioni», ha sottolineato Moro.
Di una riforma radicale del sistema della cooperazione internazionale allo sviluppo ha parlato anche
Massimo Pallottino di Caritas Italiana: «Dobbiamo passare da una cultura dei bisogni e dei beneficiari ad una cultura dei diritti e della responsabilità; tentare di rimuovere le cause del sottosviluppo e non solo curarne gli effetti, rinnovare le relazioni tra singoli e i gruppi sociali, accettare le difficoltà dell’interculturalità nel rapporto con società totalmente altre». «Per dirla con uno slogan, il futuro della cooperazione non è nell’aiuto, ma nella costruzione di una dimensione di cittadinanza», ha sintetizzato Pallottino.
Secondo Humberto Ortis Roca, segretario esecutivo del Ceas (la commissione sugli affari sociali istituita dalla Conferenza episcopale del Perù), la crisi economica e i cambiamenti climatici «sono un’occasione straordinaria per riprendere il discorso della riforma fondamentale delle istituzioni multilaterali, incominciando dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) e dalla Banca Mondiale». In particolare Roca rilancia un’idea sostenuta da vasti settori della società civile e del mondo accademico: «È il momento propizio – ha detto – da un lato, per programmare la nascita di fondi regionali che permettano non solo una supervisione più efficace della liquidità ma soprattutto di prevedere con maggior precisione le situazioni di crisi», dall’altro rivedere gli obiettivi di sviluppo del Millennio, che per molti Paesi «sono stati immaginati non in funzione di politiche sociali integrali e universali, bensì in uno schema compensatorio». Per Roca fondamentale è il ruolo della società civile: «Reti dinamiche della società civile, quali quelle impegnate nel commercio equo e solidale o per un mercato giusto, per un’economia solidale o impegnate sul tema del debito estero stanno lavorando con molta efficienza e in una grande alleanza tra Nord e Sud che ha permesso di concordare dei precisi punti in agenda e alternative globalmente riconosciute». Un esempio è in America latina Latindadd, la rete Latinoamericana sul Debito estero sviluppo e diritti, che è andata crescendo sia come adesioni (attualmente 10 paesi) che come capacità di proposte, tanto sul tema di soluzioni creative per risolvere il forte indebitamento, quanto sul tema dei finanziamenti per lo sviluppo e della finanza e del commercio in una prospettiva di una economia giusta e solidale.
L’economista Enrica Chiappero Martinetti, docente all’Università di Pavia e direttrice dell’Human
Development, Capability and Poverty International Research Centre dello stesso ateneo, ha sostenuto la necessità di superare i tradizionali criteri di misura dello sviluppo, basati su reddito e consumo, per un approccio più articolato e complesso, come quello ad esempio suggerito dal premio Nobel per l’economia, l’indiano Amartya Sen. «A partire da questa definizione multidimensionale e complessa di sviluppo e di benessere, anche l’idea di povertà e di diseguaglianza si modifica – ha detto Martinetti -, così come cambia l’idea di sostenibilità dello sviluppo intesa non più solo in termini ambientali ma anche, e soprattutto, in termini di sostenibilità sociale».
Contro la «dittatura del Prodotto interno lordo», si è rivolto l’intervento del filosofo Sergio Labate, docente all’università di Macerata: «Ridurre ogni cosa e ogni valore all’economia vigente significa fabbricare un sistema in cui la sopravvivenza bruta si sostituisce alla vita e, ancor più, a ogni possibilità di vita vera e di felicità condivisa – ha detto -. Ma perché non ci ribelliamo a questo tremendo sortilegio di carta? Capire le cause di questa specie di epocale sindrome di Stoccolma è essenziale per uscire dalla trappola».
La sfida è, dunque, prima di tutto culturale. «La crisi non è una parentesi, non è solo una crisi finanziaria, ma una crisi nella coscienza», ha concluso.

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Pubblicato il 16 Gennaio 2010
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