“Ero figlia della shoah e non lo sapevo”
Il dottor Habermann, bustocco d'adozione, durante la guerra salvò ebrei e perseguitati. La sua prima famiglia, rimasta in Ungheria, fu sterminata ad Auschwitz. La figlia Anna ha ricostruito con pazienza le vicende familiari: una pagina di storia
Anna Maria Habermann è una donna che ha scoperto suo padre, il dottor Aladar Habermann, tardivamente. Non nel senso che non l’avesse conosciuto e bene come papà affettuoso; ma non ne conosceva il passato. Alla vicenda del medico di origine ungherese tardivamente "scoperto" come "giusto" e salvatore di perseguitati durante la guerra, è dedicata buona parte delle iniziative per la Giornata della Memoria a Busto Arsizio, portate avanti dal Comune, da scuole e associazioni. Il racconto della figlia (anticipazione dei contenuti del libro "Il labirinto di carta"), di come arrivò a scoprire la vicenda che si nascondeva dietro la tranquillità della sua famiglia è asciutto e presentato con semplicità, ma va dritto al cuore. Un ringraziamento particolare la signora Habermann ha voluto riservarlo alla giornalista Rosella Formenti e a Delia Cajelli, "donna ovunque" del Teatro Sociale, per la proficua collaborazione instaurata.
«Con mio padre avevo un rapporto di intimità e di confidenza molto stretto, tanto più mi colpì quindi lo scoprire fatti del suo passato che nemmeno sospettavo: non ne aveva mai parlato». Anna Maria scoprì così, solo dopo molti anni, di avere ascendenze ebraiche, che suo padre era già stato sposato e aveva avuto un figlio, Tamàs (Tommaso), e che gran parte della sua famiglia era poi sparita nei forni crematori di Auschwitz. Il dottor Habermann era giunto a Busto Arsizio nel 1933 con la moglie, una bella ungherese di Budapest, e il bambino. Tre anni dopo la moglie, forse stufa della realtà pronvinciale di quell’Italietta, se ne tornò in patria con il figlio, che il dottor Habermann rivide solo poche volte prima della fine. Uno scandalo per l’epoca, una storia fin troppo comune per i tempi d’oggi. Durante la guerra Habermann aiutò varie persone a salvarsi dalla guerra; personalmente riuscì a sfuggire indenne alle persecuzioni.
Per la figlia la scoperta, fatta alla morte della mamma, bustocca doc, fu enorme. «Ci misi quasi quindici anni ad accettare questi fatti, queste novità sconvolgenti» che andavano a toccare il senso di identità di una persona cresciuta in tutt’altra realtà – e che con la città di Busto Arsizio, dopo la prima giovinezza, mantenne un rapporto legato quasi esclusivamente al lavoro di medico. «Fu solo nel 2000» racconta «dopo aver casualmente ritrovato le lettere scritte fra il 1936 e il 1944 dai familiari di mio padre, dai miei parenti ungheresi, che molto timidamente mi rivolsi all’associazione Figli della Shoah». Scoprendovi l’universo fin lì poco conosciuto dell’ebraismo, laico come religioso.
Anna Maria aveva avuto modo di parlare, in Ungheria, con una sorella di suo padre (la famiglia proveniva dalla città di Baja). Ma il racconto della zia, a sua volta deportata e unica sopravvissuta della famiglia, la ferì con la sua freddezza e il distacco quasi clinico a fronte di fatti narrati terribili. Negli anni Duemila la Habermann è comunque tornata nella terra dei magiari, impegnandosi anche per impararne la lingua (notoriamente ostica ndr) in modo da poter tradurre le lettere e i documenti che aveva trovato. Ha visto i luoghi d’origine del padre, quella terra di pianure e di orizzonti infiniti dove vive un popolo vivace e dalle mille origini, che si dice discendente di Attila in persona ma, bastonato da due guerre mondiali e una rivoluzione, ha da tempo attitudini decisamente pacifiche. Laggiù la Habermann ha ricostruito la storia del ramo paterno della famiglia, tragicamente troncato dalla delirante follia dei nazisti.
Tra i documenti rintracciati da Anna Maria Habermann anche quelli in cui il fratellastro Tàmas veniva indicato, in magiaro, come "da deportare anche se nato cristiano". Per lo sterminio nazista l’ebreo non era esponente di una cultura, ma di una "razza": letteralmente "contagiosa" anche in caso di matrimoni "misti" (?). Al di fuori dell’Olocausto fisico, la definizione di chi fosse ebreo e quanto resta uno dei punti più assurdi dell’intera vicenda. "Chi è ebreo, lo decido io" è una battuta attributa variamente a Goering o Goebbels, in realtà apparterebbe ad un lontano "precursore" ideale dei nazisti spesso citato da Hitler, il sindaco della Vienna asburgica Karl Lueger. Un antisemita molto sui generis che in verità aveva vari amici ebrei – e soprattutto non ammazzò mai nessuno, nè incitò a farlo. Anche questa notazione storica va a riprova dell’assurdità di tutti i razzismi, di tutti gli odi gratuiti e generalizzati. Per non dimenticare, anche questa storia familiare disseppelita dall’oblio e che lega Busto all’Ungheria e ad Auschwitz merita di essere conosciuta. Lo spettacolo teatrale del Sociale di mercoledì 27 gennaio e la presentazione del 2 febbraio al Teatro Manzoni saranno occasione di approfondimento. E di ammonimento a che il peggiore passato mai più si ripeta.
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