Sono stato schiavo di Hitler

Domenico Cuzzocrea ha 90 anni e mercoledì 27 gennaio verrà premiato dal prefetto durante la cerimonia per il Giorno della Memoria. Dopo l'8 settembre del '43, fu deportato in Germania dove rimase per tre anni a lavorare nelle miniere di carbone

A 90 anni si hanno molti ricordi. Domenico Cuzzocrea ne ha uno che entra a pieno titolo nella storia. Lui è uno di quei soldati italiani che dopo l’8 settembre del 1943 vengono deportati in Germania per diventare “schiavi di Hitler”. Per quasi tre anni è sceso ogni giorno a mille metri di profondità per scavare carbone. Domenico, che è un uomo di mare, nato e vissuto fino allo scoppio della seconda guerra mondiale sulla costa calabrese, a soli 20 anni si trova catapultato in un inferno di fame, fatica e violenza. «Ci prelevarono a Tolone, in Francia – racconta Cuzzocrea –. Il nostro colonnello, dopo l’armistizio, si rifiutò di cedere il comando della sua batteria di circa 100 uomini ai tedeschi. E così ci trovammo su un carro bestiame, con un chilo di pane per 40 persone e nemmeno un goccio d’acqua per tre giorni di viaggio».
I prigionieri sono convinti di tornare in Italia, mentre il treno si dirige in Germania. La tradotta deposita il suo carico di schiavi a Saarbrücken, perché lì il Terzo Reich scava nelle viscere della terra per estrarre carbone, necessario a mandare avanti l’economia tedesca. A Domenico e agli altri marinai italiani i nazisti danno una divisa e scarpe di legno «una tortura quotidiana a cui è difficile abituarsi». E poi, solo lavoro e botte. Botte e lavoro.
I tedeschi considerano gli italiani dei traditori e glielo ricordano in ogni momento. «Al grido di "Badoglio" ci picchiavano con il badile. Un kapo altoatesino ci trattava peggio dei nazisti. Sotto la giacca teneva una barra di acciaio. Un giorno venne nella baracca. Io ero sdraiato, stavo male e non riuscivo ad alzarmi. Mi picchiò, mi salvò l’intervento un ingegnere che mi considerava un buon lavoratore».
In miniera non mancano i momenti di solidarietà. Civili tedeschi e francesi lavorano gomito a gomito con i prigionieri italiani con i quali scambiano viveri e vestiario. La baracca è l’unico momento dove i deportati ritrovano un po’ di calore famigliare. Con i pezzetti di carbone che riescono a nascondere sotto le ascelle accendono la stufa e di fronte a una tazza di brodo di rape cercano di immaginare una vita diversa.
La fame per gli “schiavi” italiani è un’ossessione. Due fette di pane la mattina con un quadratino di margarina devono bastare per tutto il giorno. «A chi era ammalato davano solo mezza razione e quindi chi già era debilitato moriva di stenti. Un giorno un prigioniero, che cercava di prendere della cicoria al di fuori del filo spinato, si è piegato e ha allungato il braccio. Il guardiano nazista lo ha visto e gli ha sparato trapassandogli da parte a parte le ginocchia».
La morte è sempre in agguato. È sufficiente un rifiuto, un gesto di indecisione, a volte un semplice errore, per essere uccisi. «Stavamo costruendo un camminamento per i soldati tedeschi. Accanto a me c’era un militare di Rosarno che lavorava con in testa una mantella per ripararsi dal freddo. Un sergente delle SS gli disse di toglierla, lui cercò di spiegare che aveva freddo. Il nazista non ci pensò due volte e gli sparò».
Pochi mesi prima della fine della guerra, nel gennaio del 1945, Domenico e altri tre prigionieri fuggono dal campo, approfittando del caos al momento del rientro alle baracche. Non hanno una meta e così si dirigono in una zona dove hanno già lavorato, ma sulla loro strada incontrano due ufficiali tedeschi che li catturano. Mentre camminano per ritornare alla miniera incrociano una pattuglia di russi che spiegano ai due ufficiali che sono circondati e che per Hitler e il Terzo Reich è finita.
Domenico e i suoi compagni di fuga sono di nuovo liberi, trovano un carretto, ci caricano sopra un sacco di farina e decidono di puntare verso sud. Vagano per giorni senza riferimenti, sanno solo che devono raggiungere il fiume Saar, ma quando arrivano sulle sue rive non possono attraversarlo perché il ponte è stato distrutto dai bombardamenti. Nel frattempo nella regione arrivano anche gli americani che li prendono in consegna. «Ci portarono in un campo a Kaiserslautern dove c’erano altre 15 mila persone. Lì cominciammo a mangiare veramente. Dopo tre mesi ci misero su un treno per ritornare in Italia. Il viaggio durò 15 giorni. Fu un lungo ritorno alla vita».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 26 Gennaio 2010
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