Il lungo dolore dell’esodo: “Finalmente qualcuno ci ascolta, dopo tanti anni”
Serata di racconti forti e toccanti quella organizzata per la Giornata del Ricordo dedicata agli italiani fuggiti da Venezia Giulia e Dalmazia sotto l'incalzare dei titini jugoslavi, fra terrore e stragi
Il dramma delle foibe e dell’esodo forzoso dalle terre degli avi di giuliani e dalmati rivive a Busto Arsizio nella serata organizzata da Comune, parrocchia di Borsano e Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD). Pienone al cinema teatro Aurora per l’occasione pubblica, in un rione che ha un quartiere Giuliani e Dalmati con non pochi esuli e loro discendenti. Tralasceremo volutamente ogni discorso introduttivo: basti dire che nella serata presentata da Claudia Donadoni non ha mancato di esprimersi il sindaco Gigi Farioli, con un saluto anche da parte di Piermaria Morresi, vicepresidente provinciale dell’ANVGD. La proiezione del documentario d’epoca (fine anni Quaranta) "Pola Addio" e le esibizioni del Coro Monterosa hanno inframmezzato le testimonianze degli anziani protagonisti di una tragedia per troppo tempo rimossa dalla coscienza collettiva.
Senza preamboli ulteriori, presentiamo quattro testimonianze dirette udite in sala, di un uomo e tre donne, senza fare nomi nè aggiungere commenti: perchè qui è un popolo che parla e il suo lungo dolore va rispettato.
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«Scusatemi se piango, ma sono dovuto andar via che avevo 19 anni e se molti erano troppo piccoli per ricordare, io ho ancora tutto qui, nel cuore. Vivevo in un paesino di pescatori e scalpellini, gente pacifica che lavorava dodici-quattordici ore al dì. Dopo l’8 settembre del ’43 è stato un inferno. Il vero dramma fu quel mese nel 1943, nel ’45 ci furono meno infoibati. Mio padre fu un "privilegiato" che scampò alla morte, in un gruppo di 27 persone, l’unico che non finì in una foiba in quei giorni tra i vari gruppi di prigionieri. Li portavano di borgo in borgo additandoli come fascisti e criminali di guerra, finchè uno non riconobbe il macellaio del mio paese: "ma quello è… ma quale criminale di guerra?". Si ritardò allora l’esecuzione: ma nel frattempo arrivarono le SS e cacciarono i titini, trovando fra l’altro un elenco delle famiglie che dovevano essere portate via, uomini, donne e bambini… Ci dicevano che eravamo tutti fascisti: e cosa possiamo essere diventati, dopo? Dopo l’esilio ci spedirono in una caserma, la trasformammo riempiendola di fiori, e tutto sembrava tranne un campo profughi. Poi mio papà trovò lavoro come guardiano in una villa di Como: una vita da signori, diceva, perchè come tutti al paese era abituato a lavorare duramente».
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«Io sono dell’isola di Cherso (oggi Cres, ndr), una terra bellissima. A fine guerra, a diciotto anni, ero stata presa a forza per fare lavori "volontari", e feci anche una settimana di prigione perchè i miei avevano opposto resistenza a che mi si portasse via. Prima mio marito, mio zio, mio fratello, poi io con i miei tre bambini abbandonammo in barca la nostra isola. Fu una via crucis per campi profughi: Trieste, Latina, Capua, Tortona, infine ci sistemammo a Busto Arsizio dove nacque la mia ultima figlia. Ancora oggi mi manca quel mare, il mare del mio Quarnaro. È stato brutto là allora, ma anche qui , i primi tempi. Solo dopo un po’ mi sono abituata, ma non ho dimenticato».
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«Sono andata via da Pola che avevo 23 anni. Papà era negoziante, rifiutava di mettere la bandiera con la stella rossa, così era a rischio, additato. Una volta sono arrivati con una scusa, che qualcuno aveva perso un portafogli in negozio, e anche se noi nulla avevamo trovato cercavano di portarlo via, fuori c’era un’auto con le tendine, e tre tipi dentro. Siamo riusciti a non farlo andare, s’è salvato».
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«È consolante vedervi qui, sapere che oggi c’è qualcuno che ci ascolta. Nel ’43 avevo otto anni, vivevo a Pinguente, sul fiume Quieto. Un bel paese, carattteristico, con terra fertile. All’armistizio papà disse: ‘non è la fine della guerra, ma l’inizio di qualcos’altro’. Mi portò sul balcone, a vedere i titini che scendevano dai boschi dopo che i soldati italiani erano andati via. Non avevano un bell’aspetto. Fecero subito un rastrellamento di 60-70 persone portandole in un locale. Ogni notte spariva qualcuno: non lo si rivedeva mai più. Nei dintorni del paese ci sono queste foibe, queste cavità naturali profondissime: lì i titini facevano sprofondare quelli che consideravano nemici, con cui fino a poco tempo prima avevano convissuto e lavorato fianco a fianco, sia pure in lingue diverse. Chi era sceso dai boschi aveva fin lì lavorato le terre attorno al paese; ora voleva prendere il nostro posto. A un amico di famiglia di famiglia espropriarono il negozio: ‘ora appartiene al popolo’, dissero, e lui lì, zitto, a guardare il cielo. Dopo quaranta giorni di paura ci liberarono i tedeschi. Sono rimasti fino alla fine, nel ’45, a me davano le caramelle. Certo poi, quando poi i partigiani li assalivano, bruciavano interi villaggi. Poi nel maggio del ’45 tornarono gli jugoslavi, e fra i primi ad essere condannati furono i maestri, perchè insegnavano l’italiano. Così non andai più a scuola. Nel ’47, con il tratto di pace, mio padre disse: ‘io potrei anche restare, ma le mie figlie non avranno un futuro’. Andammo in provincia di Vicenza, papà trovò lavoro in municipio. L’associazione Venezia Giulia e Dalmazia mi trovò posto in un collegio, potei studiare. Poi andai da una zia a Varese, e lì ho vissuto bene fino ad oggi. Dico grazie ai varesini e anche a voi bustocchi, gente solida, laboriosa, come noi. A Pinguente sono tornata tante volte, la prima nel ’62 o ’63, in Seicento, con i miei genitori, mia sorella e mio marito, varesino doc. Dopo l’ultima collina, alla vista del paese, fu una valle di lacrime. Il ricordo lo abbiamo trasmesso anche ai nostri figli e nipoti».
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