” Mio padre sapeva che rischiava la vita e non si è tirato indietro”
Nel 1977 venne ucciso dalle Brigate Rosse il giornalista Carlo Casalegno, all'epoca vicedirettore de "La Stampa" . Parla il figlio Andrea giornalista e autore del libro “L’attentato” (Chiarelettere)
Il 17 novembre 1977 a Torino venne assassinato il giornalista Carlo Casalegno. Gli vennero sparati quattro proiettili in testa nell’androne di casa sua. Esecutori dell’attentato furono quattro brigatisti della colonna torinese “Mara Cagol”. Casalegno, vicedirettore de La Stampa quotidiano di proprietà Agnelli, morì dopo alcuni giorni di agonia ma rimarrà del suo lavoro il coraggio con cui portò avanti l’analisi profonda e attenta che fece di quegli anni.
Varesenews è andata a trovare il figlio Andrea, ex militante del movimento Lotta Continua e autore de “L’attentato” (Chiarelettere). Lo ha incontrato a Torino ed ha avuto modo di porgli alcune domande.
Qual è stata la logica che portò le Brigate Rosse ad assassinare suo padre?
«Adesso non esiste più un terrorismo di questo tipo. Esiste però il fanatismo islamico delle stragi e dei kamikaze. La logica è quella del fanatismo. Una logica cieca per la realtà, per le altre persone, per i valori umani, sorda a qualunque ragione che non sia una ottusa adesione aprioristica a certi presunti valori. Lui stava dalla parte dello stato e loro lo bollarono come servo. Non era servo dello stato ma era fermamente convinto delle sue idee».
Perché nel ’77 nel mirino dei brigatisti entrarono i giornalisti?
«Non volevano che i giornalisti scrivessero contro di loro, stessero zitti. Deciseri di uccidere mio padre perché lo ritenevano un nemico troppo pericoloso e in questo avevano ragione. Era una persona che sapeva analizzare i comportamenti degli estremisti, chiedeva allo stato una ferma reazione nel rispetto delle leggi e la sua rubrica settimanale aveva un’audience».
Qual è l’eredità che suo padre ha lasciato ai giornalisti?
«La prima eredità è il coraggio. Mio padre sapeva che rischiava la vita e non si è tirato indietro. Oggi non si rischia più la vita ma di perdere alcuni vantaggi. La seconda è un giornalismo pacato. Mio padre aveva delle forti convinzioni ma quando scriveva degli articoli era sempre estremamente equilibrato. Potrei fare i nomi di parecchi giornalisti che seguono l’esempio opposto cioè sono sempre viscerali, sopra le righe, schieratissimi, insultanti quando si tratta di avversari e molto benevoli quando si tratta della loro parte. La terza cosa, per la quale mio padre è senza alcun dubbio un esempio importante è la chiarezza. Lui fu assunto a La Stampa da Giorgio De Benedetti che imponeva a tutti una chiarezza assoluta. Anche i temi più complicati, più sottili, dovevano essere espressi con un linguaggio chiaro che è prima di tutto un modo per avere chiare le idee ma richiede anche uno sforzo di chiarezza».
Che cos’era per lei Lotta Continua?
«Lotta Continua era il più importante, numeroso, fluido e meno irreggimentato dei gruppi extraparlamentari cioè uno di quei gruppi che cercavano di fare politica non mandando dei rappresentanti in parlamento ma facendo agitazione all’interno di quelle che allora, sulla base di un pensiero marxista, le masse. In quegli anni la politica era la cosa essenziale. Ritenevo in buona fede che la politica dovesse essere messa al di sopra di tutto e del nostro interesse individuale».
Perché lei vide qualcosa di pericoloso sin dagli albori della lotta armata?
«Le lotte sociali possono essere anche molto dure ma non sono mai condotte con le armi in pungo».
In una intervista del 1977 lei disse che era un errore ridurre gli uomini a simboli. Perché?
«L’uomo che ha premuto il grilletto in faccia a mio padre ha detto che per lui era un simbolo. Queste sono sciocchezze. Non era un simbolo. Era una persona per loro scomoda. Quello che non è accettabile è che chi è un avversario politico venga schiacciato come una formica, venga considerato meno di niente».
Riproporrebbe quella sua riflessione ai giorni nostri?
«Tutti i fanatici fanno questo».
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