“Via Padova non è così lontana”
Le riflessioni del sindacalista di Cgil Jacques Amani, originario della Costa d'Avorio: "La politica miri all'integrazione ed eviti ghetti, come sta accadendo in parte del centro città"
«Attenzione, perchè via Padova non è poi così lontana, e anche a Varese si potrebbero creare situazioni simili». L’ammonimento viene da Jacques Amani, sindacalista Cgil che da responsabile dlel’ufficio politiche migratorie segue le problematiche di chi come lui è giunto negli anni da Paesi lontani per rifarsi una vita in Italia. «Nel capoluogo c’è la situazione di via Medaglie d’Oro-via Piave, ma anche via Milano e buona parte di Biumo Inferiore, che è emblematica. Al di là del riferimento ai fatti di via Padova a Milano, a Varese si è vista una zona svuotarsi di presenza italiane man mano che si infittiva quella straniera, nel commercio e nelle residenze. E se la politica non trova gli strumenti, le chiavi di un’integrazione comune, la prospettiva è quella del ghetto». Tutt’altro che tranquilla, perchè l’immigrazione, contrariamente a una delle tante false percezioni diffuse, è tutt’altro che un blocco monolitico. Sudamericani e nordafricani, come a Milano, rumeni e senegalesi, bengalesi e albanesi appartengono a situazioni culturali profondamente diverse. Comune è il desiderio di trovare qui pace e sostentamento: ma le basi di una convivenza mai sperimentata al Paese d’origine, o peggio che porta ricordi di conflitti dolorosi, vanno poste qui, è la tesi di Amani. «La politica deve pensare ad integrare l’immigrazione, prevenendo conflitti interetnici. Io vivo in un palazzo con italiani, e problemi non ce ne sono. In altre realtà si vedono magari italiani che abbandonano perchè non si sentono più sicuri di fronte all’arrivo di qualche volto straniero». È un po’ quello che è successo in via Medaglie D’Oro e dintorni: ma non è che un esempio.
«Non ho la bacchetta magica, nè la soluzione in tasca» continua il sindacalista di origine ivoriana, «vedo che si parla tanto anche di assistenzialismo, ma è un’altra parola buttata lì. Non è che chi arriva pretende». Immigrati ospiti, come dice qualcuno? «Sarà. Conosco gente che è qui da venti-trent’anni, ha la citadinanza italiana e magari si sente dare dell’extracomunitario da ragazzini di quattordici anni». Che sono italiani da parecchio meno tempo di loro. Storture della percezione che colpiscono anche i più integrati. Ma alla base di tutto c’è una divorante sensazione di precarietà e clandestinità del fenomeno migratorio, ben oltre quella che è la reale percentuale di irregolarità (che sarebbe sul 10% del totale, se contiamo anche i neocomunitari dell’est europeo).
«Se le leggi sanciscono la clandestinità, e ti ci rituffano appena perdi il lavoro, come ci si integra? Da quando c’è la legge Bossi-Fini (2002) l’immigrazione non è dimuita – è cresciuta, e di molto. È un fenomeno naturale inevitabile, come la pioggia». Uno può anche aprire l’ombrello, ma non è che smette di piovere. «Invece di alimentare la paura, di dire "pensiamo alla nostra gente", consideriamo che i bambini che nascono qui da coppie immigrate sono e si sentono italiani». Sono i figli di un ritorno in patria spesso vagheggiato ma raramente portato a termine: chi arriva «ha un progetto, vorrebbe fare un po’ di soldi e poi tornare, e invece rimane, anche a causa della rigidità del sistema. Uno che vuole rientrare in patria, se non può riscattare i contributi, come fa? E non bastano certo i 3000 euro di incentivo che un Comune del Bresciano ha pensato bene di dare come incentivo agli stranieri per lasciare l’Italia… Quindi meno demagogia, meno caccia al voto facile, più politiche attive per l’integrazione. Non dobbiamo trovarci nelle condizioni di certi fatti verificatisi in Francia o in Gran Bretagna, con persone nate e cresciute là ma che non si riconoscono nel proprio Paese», nella sua cultura, nei suoi valori. Siamo ancora in tempo per evitarlo.
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