Dove nascono le cave non cresce più l’erba
Le voragini, nascoste dalle reti e difese dai cani, divorano la terra viva. E una volta dismesse, le cave vengono recuperate: mettendoci dentro capannoni di cemento
I motori dei camion urlano affrontando la salita, uno in fila all’altro: sei giorni la settimana, tonnellate su tonnellate ogni ora. Quello che c’è dietro la rete, oltre le sbarre, oltre il palo con un grappolo di telecamere, è inimmaginabile: una voragine di quaranta metri di profondità,
cinquecento per cinquecento metri. Il verde dei boschi si spegne e regna il grigio della ghiaia e quello dei capannoni delle imprese estrattive. Gli ambiti estrattivi autorizzati a Lonate sono tre, due sulla strada per Nosate, uno a Sant’Antonino: otto milioni e 600mila metri cubi complessivi autorizzati nei prossimi dieci anni, quasi un terzo del totale previsto dal piano cave provinciale. Si sottrae ghiaia qui per costruire piloni di autostrade e capannoni e muri contenimento e condomini. La cava di via San Siro, oggi al centro delle indagini, raddoppierà di superficie, fagocitando i prati che ancora la circondano, già recintati dalle reti metalliche: se i volumi autorizzati – 4 milioni di metri cubi – fossero scavati fino in fondo, la voragine raggiungerebbe la strada Gallarate-Oleggio (nella foto, la carta del piano cave: la parte più scura è l’espansione prevista). Invisibile forse fino all’ultimo, protetta da terrapieni e telecamere di sorveglianza, arriverà quasi a lambire la frazione di Tornavento. Che rischia di rimanere chiusa tra le cave e la terza pista di Malpensa, per cui si userebbe proprio il cemento fatto con la ghiaia strappata alla terra lonatese.

Ma in altri punti le cave si affacciano prepotenti verso il Ticino, mordono il ciglio sinuoso della valle, rimangono come ferite. Basta attraversare la strada che porta a Nosate per trovarsi di fronte l’altra cava, che strapiomba verso il Villoresi, verso il fiume. Qui –
sia chiaro – è una storia lunga, quasi una vocazione del territorio: i contadini delusi dalla terra si sono vendicati cavandone ghiaia, facendo del terreno più povero che c’è la loro ricchezza. Un paio di chilometri a nord c’è la cava della Maggia, che fino alla seconda guerra mondiale era poco più di uno dei tanti buchi. Adagio adagio si è mangiata i campi, poi anche la cascina che c’era accanto: è rimasta solo la chiesetta, sospesa accanto alla voragine. Oggi c’è un enorme centro logistico: il cemento ha preso il posto della ghiaia e con questo la cava è “recuperata”. Poco più a nord lungo via del Gregge, c’è un altro impianto, uno di quelli che ha divorato il ciglio della valle: il canale Villoresi lambisce le pareti nude della vecchia cava, mentre dentro sono cresciuti altri capannoni. Ghiaia, capannoni o discariche, non sembra esserci destino diverso per quest’area: il fronte del morto avanza inesorabile, in una delle zone dove più attenta dovrebbe essere la salvaguardia della vita vegetale e animale. È il prezzo pagato per lo sviluppo e per la ricchezza, delle mille imprese edili che hanno colonizzato lentamente tutta la zona. E intorno all’edilizia e al cemento ruotano anche gli interessi illeciti. Anche sull’altra sponda del Ticino: a gennaio un imprenditore del settore è stato freddato all’interno di una cava a Romentino, a meno di venti chilometri da qui.

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