Fascetti e Arcelli, gli inventori del “miracolo”

Lo chiamavano "casino organizzato", ma l'ultimo grande Varese di Serie B nasceva dalla mente illuminata di un tecnico e di un preparatore all'avanguardia. Che si sono ritrovati per una serata speciale

Se i ricordi degli “over 50” corrono inevitabilmente agli anni di Borghi e della Serie A, è indiscutibile che per tutti gli altri il Varese più amato sia quello che arrivò a un passo dalla promozione nella massima categoria nell’81-82. Una squadra che in campo, alla domenica come nel resto della settimana, aveva due architetti ai limiti del prato che si sono ritrovati proprio davanti alla panchina di allora.
L’uno è un toscanaccio verace, focoso e reattivo, l’altro un professore gentile e flemmatico: insieme, Eugenio Fascetti ed Enrico Arcelli rivoluzionarono quella squadra e tutto il mondo del calcio.
«Eravamo una gran squadra, avanti anni luce rispetto a tutti gli altri anche grazie alla preparazione che avevamo, anche se poi scherzosamente ci definivamo "casino organizzato"» sussurra Fascetti mentre guarda i suoi ex ragazzi ancora vivaci sul terreno verde («Il più in forma? Direi Scaglia»). «Ed è un piacere tornare qui tra voi in questa occasione, è bello, anche perché a Varese città sono venuto spesso, ma sulla panchina dello stadio non mi siedo, credo, dall’84, quando venni qui con il Lecce». Negli occhi dell’Eugenio, più pacato di un tempo ma non meno tagliente, guizzano certe occasioni e certe partite, comprese quelle che segnarono nel male un’annata miracolosa. «Varese, Bari e Verona erano le squadre più belle e forti di quella stagione, quando ci hanno fatto fuori. La partita con la Lazio, certo, fu l’epilogo, ma certi fischi con la Cavese o all’andata con la Samp mica me li scordo. Però ci sono anche partite fantastiche, come il 2-0 ai blucerchiati qui a Masnago».
«Già, la Lazio, chi se la scorda» gli fa eco Arcelli, misurato come di consueto nelle parole e negli atteggiamenti. «Io – ammette – non sono mai stato un emotivo, consideravo la partita come un proseguimento del lavoro settimanale e non mi arrabbiavo. Anche se quella partita…». Con Fascetti, Arcelli coronò un lavoro lungo parecchi anni: «Cominciammo intorno al ’72 o ’73 a introdurre certi metodi di preparazione fino a lì inesplorati: le squadre allora avevano al massimo degli “istruttori ginnico-atletici” ma nulla di più. Noi facevamo atletica, correvamo al posto di fare ginnastica e i risultati si vedevano. Con Eugenio poi, facemmo un altro passo avanti: pensate che fino a lì non si facevano le ripetute in salita per paura di sfiancare i giocatori. Io insistetti, Fascetti era d’accordo: da lì in poi a sfiancarsi erano quelli delle altre squadre, mica i nostri».
La partita dei cent’anni è finita, gli ultimi “ragazzi” in viola escono tra gli applausi, Arcelli li guarda e li ricorda tutti. «Ognuno è diverso dall’altro ma tutti possono migliorarsi con l’impegno e la preparazione misurata secondo il fisico e l’esigenza. Limido era considerato senza futuro: con il sacrificio e l’attenzione è arrivato a giocare nella Juve. Ma il massimo fu Gentile, considerato troppo lento per gli alti livelli: gli cambiammo il modo di correre, lui marcò Zico e Maradona e l’Italia vinse il Mondiale».

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Pubblicato il 22 Marzo 2010
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