Holding del racket, un altro arresto
È il dodicesimo dopo gli arresti di giovedì scorso. L'accusa è di estorsione, ricettazione, detenzione e porto illegale di armi
In arresto anche il dodicesimo affiliato alla holding del racket sgominata due giorni fa dai Carabinieri. Solo due giorni erano state emesse undici ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di altrettanti personaggi appartenenti ad un sodalizio criminale dedito al compimento dei reati di usura, esercizio abusivo della professione finanziaria, estorsione, ricettazione, detenzione e porto illegale di armi. Si trattava di una vera e propria holding dell’usura operante nel nord Italia. Ieri sera, venerdì 26 marzo, i militari del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Varese hanno individuato e tratto in arresto anche il dodicesimo associato, P. F., 53enne originario dell’hinterland napoletano.
L’attività investigativa, coordinata dal Sostituto Procuratore della Repubblica, Tiziano Masini, trae origine da una rapina a mano armata che si è svolta l’8 settembre 2006 ai danni di una tabaccheria di Azzate, a seguito della quale sono emersi elementi di responsabilità nei confronti del basista, originario di Castellamare di Stabia, e di altri soggetti pregiudicati facenti parte di un gruppo organizzato dedito alla commissione di numerosi reati. Dal novembre 2006 sono stati già eseguiti 21 arresti, operati sia in flagranza di reato che su disposizione dell’A.G., a seguito dei quali sono emersi collegamenti diretti tra il gruppo criminale ed alcuni esponenti del clan dei “D’Alessandro” di Castellamare di Stabia (cui a Varese veniva fornita assistenza e supporto logistico per le rapine perpetrate nel nord Italia).
Dall’indagine è emerso che i capi dell’intera organizzazione erano due, uno dei due “boss” trattava personalmente con gli usurati, mentre l’altro si occupava di “investire” i proventi dei traffici illeciti in operazioni finanziarie. Ad essi si affiancavano altri due membri che operavano quali intermediari o incaricati di singole operazioni di riscossione. Anche nei periodi in cui i “capi” si trovavano in stato di arresto per vari reati (dalla rapina allo spaccio di sostanze stupefacenti), l’attività illecita proseguiva sotto la direzione della moglie e del figlio che provvedeva alle “operazioni di recupero crediti”.
L’associazione operava in tutto il nord Italia ed era dedita prevalentemente all’attività di usura ed estorsione nei confronti di piccoli imprenditori – a rischio di fallimento – e in gravi difficoltà economiche che, dopo aver beneficiato di prestiti (da 5.000 a 60.000 euro), si vedevano applicare tassi che superavano il 10% mensile ed il 120% annuo. L’attività di riscossione era affidata principalmente ad un albanese, che, attraverso minacce e percosse, costringeva a restituire il prestito usuraio. Lo stato di soggezione era tale che alcune delle persone offese, per timore di più gravi ritorsioni, hanno preferito rendere false dichiarazioni all’Autorità Giudiziaria e rispondere ad essa anche per il reato di favoreggiamento. Il sodalizio, in più casi, riusciva a subentrare – tramite prestanome – nella gestione effettiva delle società attraverso le quali riciclava i proventi dell’attività d’usura o, in alternativa, quando le aziende versavano in difficoltà economica, si serviva delle stesse per realizzare truffe di vario genere.
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