“Con programmi fatti in funzione degli spot, siamo noi ad essere venduti”
Alle Acli il giornalista e regista Rai Gilberto Squizzato affronta i temi del suo libro "La tv che non c'è". Il ruolo della televisione pubblica e la necessità di riformarne la struttura per sfuggire all'abbraccio dei partiti
"La tv che non c’è" è un auspicio, un sogno forse, ma servono anche quelli. Una persuasione che accompagna Gilberto Squizzato, giornalista e regista Rai bustocco che ha pubblicato recentemente il volume così titolato, e dedicato ad una analisi delle criticità della tv pubblica italiana. Un testo che non si limita alla critica, ma lancia delle proposte. Per discutere di questi temi Squizzato era presente martedì sera a Gallarate presso la sede Acli, insieme a Fabrizio Galimberti, presidente della sezione varesina di Aiart – associazione spettatori onlus. A moderare la serata Ruffino Selmi, vicepresidente Acli Varese.
«Questo di Gilberto è un libro di grande valore» premetteva Galimberti. «Si dice che Internet sia il superamento della tv, ma questa è ancora il mezzo dominante» e orienta ben il 70% delle scelte politiche degli italiani, fagocitando ogni anno 4,2 miliardi di euro sui 7 del giro d’affari complessivo della pubblicità – appena 350 milioni vanno a Internet.Galimberti ha illustrato come ad un servizio pubblico con punte di qualità sia subentrata trent’anni fa "l’era dell’abbondanza tv" con l’irrompere delle reti commerciali. «Questo ha cambiato radicalmente la tv, che non ha più per interlocutore il pubblico, bensì lo sponsor. A questo punto il pubblico non più un fine, ma un mezzo», un numero per attrarre inserzionisti. E su questo terreno, in una lotta al ribasso, la tv pubblica, la Rai, ha inseguito i privati (leggi: Mediaset). Salvo poi trovarsi politicamente controllata dal padrone della concorrenza: situazione voluta dai tele-elettori italiani, e che non c’è bisogno di commentare.
Gilberto Squizzato in Rai ci è entrato nel 1979 "incasellato" suo malgrado dalla politica. Risultava un indipendente "in quota" PCI, essendo stato giovane consigliere comunale nella sua città. «È verissimo quel che si dice sulla lottizzazione» afferma netto all’inizio del libro. Aveva superato un concorso da sceneggiatore, ma fu chiamato dopo un anno… come giornalista. Dopo trent’anni, parla, anzi, scrive. «Come dipendente sarei tenuto al silenzio, e non so quali conseguenze avrà il libro: ma viene il momento dell’obiezione di coscienza». A spingere Squizzato a scrivere questo volume è stata fra le altre una riflessione sull’occupazione della Innse, la scorsa estate a Milano. «Questi operai sulle gru esercitavano una proprietà morale su un’azienda in cui avevano messo la propria vita. Mi ha mosso la solidarietà, ma anche la rabbia: in trent’anni ho visto sfilare CdA e direttori a dozzine, ma anche tanti politici che hanno considerato la tv pubblica come una loro proprietà: la Rai diventava "bottino elettorale" ad ogni voto».
Se un grande telegiornale nazionale dà una notizia errata o distorta, riflette Squizzato, questo è un sintomo. «La malattia è il fatto che non lo si sanzioni. Del resto, chi provvede? Un direttore generale designato dal capo del governo? L’AGCOM?». Se il governo, o meglio, il suo capo, fa della Rai quel che vuole, non è che a centrosinistra le cose vadano meglio: «per D’Alema, e Prodi era d’accordo, la Rai avrebbe dovuto avere un solo canale. Poi il digitale terrestre ha riaperto i giochi. Si parlava anche di separare le trasmissioni "di servizio pubblico" e non. Ma cosa è servizio pubblico e cosa no? Non puoi fare porcate per portare soldi e finanziare il resto, quello che "si deve fare"; è aberrante, come lo è la stessa filosofia applicata alla sanità o alla scuola». Aldilà delle oscillanti posizioni della politica, il vero problema è il rapporto pubblico-privato. Un tv commerciale o un quotidiano possono fare ciò che credono, con regole non scritte, come quella secondo cui non si toccano mai gli affari della proprietà. Chi dunque, se non il pubblico, «può rappresentare le verità senza voce?» si chiede Squizzato. Pubblico è garanzia di pluralismo, che non è solo quello partitico («il parlamento rappresenta solo l’aspetto partitico del Paese: e il resto?»), ma culturale in senso ben più ampio.
Pluralismo, fuga dall’abbraccio mortale non della politica, ma del partitismo, la sua degenerazione tipicamente italiana; un rapporto corretto con la realtà del Paese. Un CdA più composito, con rappresentanze indicate dalla società civile e dagli enti territoriali, non solo dai partiti; più canali (la Rai potrebbe averene dodici, con il digitale terrestre) dedicati ad esempio al territorio, al lavoro, tema abbandonato da almeno dieci anni, ai nuovi italiani, i migranti. Queste alcune ricette di Squizzato per cercare di uscire dall’impasse. E, senza moralismi sciocchi, il ripudio dell’inseguimento al ribasso dei criteri delle tv commerciali. Perchè censura è anche non produrre determinati programmi per l’ossessione preconcetta dell’audience a tutti i costi e a tutte le ore. «Se un programma si fa in funzione degli spot, siamo noi come telespettatori che veniamo venduti» chiarisce Squizzato. «La pubblicità è l’unica tassa che non può evadere nessuno. Il suo costo lo paghiamo sempre, al supermercato», e questo taglia la testa al toro sulla trita questione del canone contro la pretesa "gratuità" delle reti commerciali. Viene spontanea, ascoltando Squizzato, una battuta amara: non sapeva quanto aveva ragione chi negli anni Settanta annunciava "Pagherete caro, pagherete tutto". Cambiando solo l’ultima vocale con una i, è una profezia verificata.
C’è poi la critica secondo cui si pretenderebbe di fare "una tv pedagogica". Ma la pedagogia c’è sempre, ribatte Squizzato: la loro pedagogia, funzionale a determinati obiettivi. Valori e disvalori, stili e modelli di comportamento, tra Veline e Isole dei Famosi, si sdoganano o passano come "normali" attraverso un lavorio sottile e continuo, di fronte a un pubblico spesso con seri problemi relazionali per il quale la tv è l’unica compagnia o riferimento, e sovente privo degli strumenti culturali per un approccio critico a quanto vede. Fino a quando la realtà "vera" diventa quella che sfila davanti a una telecamera, piuttosto che quella fuori dall’uscio di casa. «La vera in-formazione non si fa nei tg, ma nel resto dei programmi». Il palinsesto è re, e chi lo controlla e produce, spesso poche forti società ben connesse con la politica, è il dominus della tv. Che ipnotizza, condiziona, forma un intero popolo. Le conseguenze sono a tutti visibili.
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