Statuto dei Lavoratori, “così la Costituzione entrò in fabbrica”
Compie 40 anni la legge 300/70: il ricordo di Antonio Pizzinato, autorevole voce del mondo sindacale. "Fu un cambiamento epocale frutto di grandi lotte"
Il 20 maggio di quarant’anni fa la Camera dei Deputati approvò in via definitiva la legge 300, meglio nota come Statuto dei lavoratori. Frutto di un complesso percorso che nacque dalle ormai secolari lotte del movimento operaio, e dalla spinta politica di un PSI non ancora craxiano, nelle figure del ministro Giacomo Brodolini, ex sindacalista, e del professor Gino Giugni, venuto a mancare lo scorso ottobre, lo Statuto fu una pietra miliare nei diritti associativi e nella dignità del lavoro dipendente.
Ne parliamo con una figura autorevole del mondo sindacale e politico di questi quarant’anni: Antonio Pizzinato. Classe 1932, esordi da operaio a Milano, segretario generale della Cgil tra il 1986 e il 1988, parlamentare (1992-1994, 1996-2006), sottosegretario al Lavoro nel primo governo Prodi, presidente regionale di Anpi, ha vissuto in prima persona le lotte che hanno portato allo Statuto, la sua applicazione e i tumultuosi cambiamenti che dagli anni Ottanta in poi hanno rimesso in discussione conquiste che si davano per acquisite.
«Dietro lo Statuto vi sono diciotto anni di lotte» ricorda Pizzinato. «Fu Giuseppe Di Vittorio per primo, nel 1952, a sottolineare l’importanza di una legge che tutelasse i diritti delle persone sui luoghi di lavoro». In quegli anni di dopoguerra innumerevoli erano i licenziamenti per ragioni politiche, tanto nel pubblico quanto nelle aziende. «Solo quelli ufficialmente riconosciuti, e sicuramente sono molti di più, furono 30mila. Addirittura molti emigrarono». Per il settore pubblico, «fu solo nel 2001 che il Parlamento ammise che vi erano stati licenziamenti ingiusti». «Il salto di qualità nasce con le lotte dei metalmeccanici, che fino al 1962 non avevano avuto un contratto nazionale regolarmente rinnovato» ricorda Pizzinato. Negli anni Sessanta vennero via via ottenuti dei successi attraverso le lotte sindacali. Licenziamenti ad nutum (ad un cenno, senza dover specificare ragioni), per maternità o per matrimonio – tutte “giuste cause” fin lì – , furono uno dopo l’altro rimossi. Erano anche gli anni dei “reparti confino”, ricorda Pizzinato, in cui le grandi aziende confinavano i lavoratori “scomodi”: una vera forma di mobbing.
In seguito fu l’autunno caldo, quello del 1969. «L’11 dicembre il Senato approvava il testo dell’allora disegno di legge, che comprendeva in parte anche una mediazione fatta sul contratto dei metalmeccanici». Il giorno dopo, 12 dicembre, la strage di piazza Fontana inaugurò la strategia della tensione contro le sinistre. Il 20 maggio 1970 lo Statuto dei Lavoratori era legge, e con esso il riconoscimento della libertà dell’azione sindacale, della dignità dei lavoratori come persone dotate di diritti, prima che come prestatori d’opera. «La Costituzione entrava in fabbrica» rivendica ancora con soddisfazione l’ex sindacalista. «Ci entrammo anche noi, fisicamente, ci portarono dentro in spalla».
Lo Statuto era un riconoscimento anche formale del passaggio del Paese a nazione industrializzata. Vi si arrivò tardi? «Sì, rispetto alle battaglie e ai cambiamenti produttivi» risponde Pizzinato. «Fu comunque un cambiamento epocale, frutto di grandi lotte. Non solo sul piano contrattuale» continua, «ma anche quello sociale: da lì partirono i percorsi che condussero alle riforme pensionistiche, alle Regioni, o alla creazione del Servizio sanitario nazionale nel 1978. Cambiò il sindacato stesso: si eleggevano liberamente i rappresentanti, si riconoscevano dieci ore l’anno per assemblee sindacali, si concordavano aspettative per chi faceva sindacato a tempo pieno». Gli anni Settanta, rievoca Pizzinato, divennero «una lunga battaglia per il sociale, per l’unità sindacale, il superamento delle differenze di diritti fra uomo e donna, fra categorie, per la sicurezza, con la medicina del lavoro che entrava anch’essa in azienda».
Poi, con gli anni Ottanta, si cambia musica. Il 1980 è l’anno della grande sconfitta. «Avanzano terziarizzazione, servizi, poi la globalizzazione», il precariato. A fronte di ciò «vi è una regressione nell’applicazione delle norme costituzionali che mirano all’eguaglianza dei diritti.
I cambiamenti sono schiaccianti. «In Lombardia c’era più occupazione nell’industria nel 1951 che nel 2006. Alla fine degli anni Settanta oltre il 50% di tutti i lavoratori lombardi era impiegato in aziende con oltre 250 dipendenti, oggi sono il 10,7%». È la frammentazione. «Oggi si subappalta perfino in sanità, siamo alla negazione dei diritti del lavoro». Che fare? «È indubbio che c’è un ritardo di fronte a un cambiamento così evidente. Io già negli anni Ottanta da segretario generale Cgil mi posi come obiettivo di rifondare il sindacato vedendo cambiare la situazione, e persi. Oggi, 40 anni dopo lo Statuto dei Lavoratri ci sono 387 tipi diversi di contratto di lavoro». Pizzinato propone alcuni obiettivi: «Unificare i contratti in numero molto più ridotto di tipologie; stesso contratto per un medesimo luogo di lavoro; contratti coordinati a livello europeo e se possibile globale. Difficile? Se avevano fatto il contratto dei marittimi nel 1904, cent’anni fa, valido per tutto il globo, perchè non anche per altri settori? Poi bisogna da garantire i lavoratori delle aziende sotto i quindici dipendenti». Insomma, «è necessario ritrovare la capacità di fare quel salto di qualità visto negli anni Sessanta». Anche perchè «ora il governo Berlusconi ci riporta a ben prima del 1970 con il ddl delega sul lavoro. Si pretende che prima dell’assunzione il dipendente scelga i canali di risoluzione delle controversie. Ormai non più la legge, ma i rapporti personali decidono il destino del lavoratore. È necessario che si apra una stagione nuova, ben diversa da quanto hanno in mente i Sacconi e i Brunetta».
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