Gilberto Squizzato e la “sua” Rai su RadioTre
Nella trasmissione "Fahrenheit" il regista, docente e giornalista bustocco, autore del libro "la tv che non c'è", intervistato sui mali del servizio pubblico (controllo partitico, dominio della pubblicità) e le proposte per superarli
Trent’anni in Rai non si passano a caso. Gilberto Squizzato, bustocco, giornalista, regista, autore televisivo e docente, è uno che "da dentro" osserva e riflette, con rara lucidità, sulle storture del servizio pubblico radiotelevisivo. Riflessioni che ha condensato nel suo libro "La tv che non c’è", e offerto oggi. lunedì 23 agosto, agli ascoltatori della trasmissione "Fahrenheit" su Radiorai Tre.
Come ripensare, oggi, la mission del servizio pubblico, mai definita chiaramente? «Dal 1979, nessuno dei miei dirigenti mi ha mai detto qual è il senso del lavoro dell’azienda» constata asciutto Squizzato. Come una nave senza meta, "mamma Rai" naviga a vista. Fra mille secche e correnti contrarie, in verità.
«Come si può liberare la Rai dal controllo dei partiti? Che fare di fronte a Rai che somiglia sempre più a una emittente commerciale privata?» Da queste riflesisoni è scaturito il libro. Squizzato cita i massimi dirigenti quando parlano di “lenta agonia” o di una perdita di di credibilità del servizio pubblico: e allora qualche domanda bisogna porsela. «Abbiamo ereditato dal fascismo un’idea da cui liberarci: quella per cui i partiti rappresentano l’intera società. Non è così: il Parlamento rappresenta l’Italia dla punto di vista politico, non culturale. Avanzano i movimenti, le associazioni, i singoli che chiedono questa riforma. Perchè non una Rai che serenamente, come nelle democrazie occidentali, faccia il suo lavoro vigilando la politica, mentre oggi è lei ad essere vigilata dai partiti? Perchè non carriere fatte per merito, e non per indicazione partitica?».
Che fare? «Per prima cosa, una bonifica del linguaggio, si usano scorrettamente dei concetti. La Rai deve stare sul mercato, si dice: ne siamo sicuri?» Sul tema della pubblicità, Squizzato ribadiva che mentre molti evadono il canone Rai, nessuno può evadere quello delle tv commerciali: «lo paghi al supermercato, ogni giorno». La pubblità è legittima, ma «nel servizio pubblico deve essere un prodotto aggiuntivo, non far somigliare la rete a quelle commerciali. Non mi scandalizzerei se ci fosse ancora pubblicità nella Rai, purchè i palinsesti non vengano decisi in base a essa; e non mi scandalizzerei se essa non ci fosse, per scelta politica». Il diritto del cittadino a una informazione libera, autonoma e indipendente non è negoziabile, ma costa: nulla da eccepire, dice Squizzato, se lo si finanziasse attraverso la fiscalità generale; «poi ben venga la pubblicità, ma solo se migliora e amplia il servizio».
Sulla questione delle esternalizzazioni di servizi dalla Rai a società private, Squizzato cita il rischio che «la Rai non sia più, di qui a poco la prima azienda culturale del paese, ma solo un’antenna per mandare in onda trasmissioni pensate altrove. Il ruolo delle figure ideative e creative si rimpicciolisce a favore di una pletora di dirigenti di cui non si sente la necessità, si moltiplicano le poltrone». I creativi sono validi anche nelle società esterne, ma lì il critoerio è la concorrenza, l’ascolto a qualunque costo. E la ricchezza della Rai sono «quelli che sanno fare i programmi», prima che le star o gli impianti.
La cultura degli italiani è stata cambiata dalla tv commerciale. Si dice ora che con i canali digitali si ampli l’offerta tv: ma si hanno le idee chiare su cosa metterci?, si chiede Squizzato. «Il servizio pubblico deve porsi del limiti e crearsi un proprio pubblico» sostiene. Raccontare l’Italia vera, l’Italia tutta. Talent show: ok, ma non ci sono solo quelli che cantano e ballano. I reality: «perchè non anche l’Isola dei cassintegrati?» Sicuramente non per il pubblico dell’Isola dei Famosi, ma come scudiscio morale e chiave di lettura dei tempi, l’idea c’è. Crearsi un pubblico vuol dire anche sfuggire alla colonizzazione culturale: «Noi oggi vediamo il mondo, lo pensiamo, attraverso il prisma delle grandi fiction americane: perchè l’Itaia, l’Europa non devono creare una sinergia, un nostro racconto, invece di riadattare format che trovi tal quali persino in India?».
Infine, la radio: «Servono canali dedicati anche per la radio: ad esempio ai nostri 4 milioni di immigrati, per insegnare l’italiano, aiutandoli al contempo a valorizzare lingue e culture d’origine. Un mio zio emigrò in Canada, faceva il taglialegna a venti gradi sotto zero, be’, c’era il canale radio canadese in italiano per imparare l’inglese».
“Troppe prediche” il commento stroncatorio di un ascoltatore via sms. Questa è la gratitudine che si riserva, nel nostro Paese, a chi si prende ancora la briga di usare la propria intelligenza, invece di esternalizzare pure quella. Agli altri, va forse bene così, salvo forse lagnarsi al primo disservizio, senza capire che tutto si tiene, che si raccoglie quel che si è seminato.
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