“La politica degli aiuti ostacola lo sviluppo dell’Africa”
Il Continente Nero visto da Matteo Fraschini Koffi, fotoreporter e giornalista freelance. Nato in Togo, adottato a pochi mesi da una famiglia milanese, e scontratosi con al discriminazione in Italia, è andato a "scoprire" un mondo
Africa, un continente tutto da scoprire. Per noi "occidentali" e "bianchi", un mix di esotismo e miserie, splendori e massacri, paradiso perduto e pericolo incombente. Del tutto particolare l’ottica quando a posare sul continente il suo sguardo, fotografico e giornalistico, è un nero italiano. Italianissimo, milanese anzi. Matteo Fraschini Koffi, sopite sabato sera del Quadrifoglio di Borsano nell’ambito delle iniziative di Sinistra ecologia libertà, è un uomo-ponte fra realtà lontane. Nato in Togo nel 1981, abbandonato alle suore di un istituto, fu adottato a nove mesi, malatissimo, da un primario del San Raffaele di Milano. Dopo l’adolescenza ha cominciato a non sentirsi più a casa in un’Italia che guarda con automatico sospetto a chiunque abbia un aspetto differente; tornare "alle radici" è stato quasi inevitabile. Ora vive a Malindi lavorando come freelance, anche se si trasferirà prossimamente in Ghana, dall’altra parte dell’immane continente.
Con la presentazione di Gilberto Squizzato, Fraschini (il suo nome africano, Koffi, sta per "nato di venerdì" nella lingua in uso nel Togo) ha narrato alcuni aspetti della sua "scoperta" dell’Africa. Molto speciale, come può essere per chi è sempre "guardato strano" in patria ma sul posto, almeno a prima vista, può tranquillamente passare per africano doc. Il suo primo viaggio è stato in Togo, alla ricerca della famiglia, descritto nel libro "I 19 giorni di Lomé". In Italia, fino ai sedici anni circa la sua vita era stata in tutto normale. Poi aveva cominciato a sentire il peso della discriminazione e del sospetto. «Il poliziotto che ti ferma per strada: "uè, fratello, vieni qui, documenti"», come in uno sketch di Aldo, Giovanni e Giacomo, solo che non si ride; «la gente che ti dà l’elemosina all’uscita dalla chiesa credendo che tu sia un mendicante; i negozianti che mi dicevano "non compriamo niente…" prima ancora che aprissi bocca per chiedere qualcosa…» L’identità italiana stava stretta, per il semplice motivo che non veniva accettata "automaticamente" come per chiunque avesse l’aspetto "giusto": «Ti ritrovi spaesato, pur volendo sentirti italiano». E parlando, appunto, come un milanese qualsiasi. Ma nemmeno in Africa si sfugge ai preconcetti: «A Malindi, in un periodo in cui convivevo con la mia ex (friulana ndr), veniva gente a cercare impiego: vedeva me, e diceva di dover parlare con la bianca, nemmeno pensava che il padrone di casa fossi io…»
Matteo ha girato tutta l’Africa o quasi, decine di migliaia di chilometri da cui ha tratto reportage fotografici e inchieste per varie riviste e quotidiani: il Continente Nero è la sua occupazione esclusiva. Così, nel presentare alcuni degli innumerevoli scatti, ha potuto dilungarsi a spiegare alcune delle realtà locali viste di prima mano. Sfilavano così i campi profughi di Gulu, nell’Uganda dell’esplosione demografica, segnata da decenni di guerra civile che solo ora inizia a recedere, con un milione e mezzo di deportati sradicati due volte, la prima dall’esercito, per contrastare la guerriglia omicida del sedicente Lord’s Resistance Army, la seconda per essere rispedita dai campi profughi ai villaggi d’origine, ad anni di distanza, e con la collaborazione delle agenzie Onu. Il cui lavoro sul campo non è sempre rose e fiori negli effetti, avverte Fraschini. Più in generale, è la politica degli aiuti che, per quanto ha visto sul posto, sembra esacerbare la dipendenza delle popolazioni, al punto, sostiene, da ostacolare un processo autonomo di crescita che, per quanto prevedibilmente doloroso, è auspicabile e necessario. C’è che chi, fra le popolazioni, non sembra farsi molto di questi aiuti: Franschini fa l’esempio dei Turkana, una popolazione di una zona remota e desertica del Kenya, intorno al lago omonimo, lontana dall’urbanesimo e molto indipendente. «L’aiuto in generale è diventato un business, difficile capirlo guardando dall’Occidente. L’80% di quel che arriva all’Onu viene speso per l’organizzazione».
L’Africa è enorme e contiene realtà diverse fra loro per lingua e tradizioni quanto lo è la Russia dalla Scandinavia. Il reporter ne conosce soprattutto la parte orientale, affacciata all’Oceano Indiano. Il Kenya, ancora segnato dagli scontri fra etnie che insanguinarono le scorse elezioni, racconta, è frenetico, in via di caotico sviluppo, con un arcipelago, quello di Lomu, che presto sarà "mangiato" dal secondo porto commerciale del continente, la cui costruzione è affidata ai cinesi sempre più potenza neocoloniale "soft". I camion vanno e vengono collegando l’interno del continente, sulle rotte dei commerci legali e illegali. A questo scenario si contrappone la relativa quiete della Tanzania. Qui il nostro ha trovato ancora piantagioni di tipo "coloniale", la cui popolazione vive raccolta intorno ai servizi appositamente creati – scuola, ospedale – di fatto impossibilitata ad avere alternative. Un sistema nei fatti feudale, in molti casi con ancora l’uomo bianco, il padrone, fisicamente al centro. E qualche volta dannoso per il territorio e l’ambiente, come nelle piantagioni di tabacco, che divorano e isteriliscono il suolo. Scendendo ancora verso sud, il Mozambico: poverissimo e molto integro dal punto di vista paesaggistico. All’estremo nord, viceversa, i drammi del Corno d’Africa, testimoniati dalle immagini dei rifugiati somali ed eritrei che fuggono da realtà speculari e opposte: nel primo caso per mancanza di uno Stato («la Somalia è una discarica per molti paesi, lo stesso fondamentalismo islamico è usato come scusa per altri tipi di interessi»), nel secondo per onnipresenza totalitaria del medesimo.
A chi sta difficoltosamente cercando nel lavoro e nella vita una sua "africanità", che all’inizio era solo genetica ed esteriore, non resta che lavorare con i colleghi locali, «anche cercando di avviare un lavoro diverso: ad esempio facendo scoprire che anche in Occidente vi sono problemi e povertà». Indubbiamente, il risultato sarebbe curioso: vedere le banlieu francesi o certe terre di camorra raccontate da giornalisti africani sarebbe interessante. Se solo ci fosse un pubblico a seguirli.
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