“La tv che non c’è”: cambiare la Rai per raccontare l’Italia. Quella vera
Pubblicità invasiva, controllo politico soffocante. A che serve, dunque, la tv pubblica? A dire tutta la verità, laddove i soggetti commerciali sono condizionati dall'editore. Le tesi del libro di Gilberto Squizzato
Pubblico attento allo spazio ScopriCoop di Varese per l’incontro organizzato da UniversAuser con il giornalista e regista Rai Gilberto Squizzato per la presentazione del suo libro "La tv che non c’è", edito da Minimum Fax. Ad accompagnare Squizzato era Fabrizio Galimberti per AIART, associazione di "utenti" della televisione: spettatori, cioè, non si limitano a "subirla" passivamente, ma adottano un approccio critico sulla programmazione. Da un lato dunque l’utenza finale, dall’altro un personaggio che la tv in parte l’ha fatta e dovrebbe farla – se vi fossero ancora in Rai gli spazi, le strutture, le condizioni per una produzione interna. Uno dei tanti temi che il libro sviscera, andando a toccare nervi scoperti del rapporto della "televisione degli italiani" con la politica e con la pubblicità.
Il livello della programmazione, su tutta la tv in generale, ma anche in Rai, è sceso di molto, constatava Galimberti. Nella tv commerciale il pubblico non è un fine, ma un mezzo per presentare dei numeri agli inserzionisti; la tv pubblica ha seguito pari pari questa involuzione, ed è drammaticamente lontana da ciò che era stata, con tutti i suoi limiti, fino agli anni Settanta.
Squizzato, trentun anni in Rai, prende le mosse della presentazione, forse l’ispirazione dell’intero libro, dalla vicenda degli operai della Innse, "silenziata" da tutti i media fin quando non riuscì ad approdare alla televisione, e ottenere visibilità, e infine, ragione. «Era stato cancellato il mondo del lavoro e della quotidianità», mentre sui talk-show sfilavano i personaggi più improbabili della "compagnia di giro" che infesta tabloid e televisioni. «In situazioni clamorosamente scandalose è facile vedere gli episodi, più difficile cogliere la radice dei problemi» osserva Squizzato.
Se uno Zavoli ha detto che la Rai perde di credibilità, e se il presidente Galimberti ha annunciato l’agonia del servizio pubblico televisivo, come ricorda il giornalista-regista bustocco, è segno certo che il male è noto. Meno, cosa fare per risalire la china. Prima di tutto, serve una «bonifica dei concetti» e delle parole stesse: togliersi false impressioni. Ad esempio: che alla Rai paghi l’odiato canone, mentre le tv private ti regalano lo show. Balle. «Il canone della tv commerciale è l’unico che non puoi evadere: lo paghi tutti i giorni al supermercato, il costo della pubblicità sui prodotti». Oppure: «la Rai deve stare sul mercato», assioma incontrovertibile per alcuni. Ma, a ben pensarci, non era un servizio pubblico, come la scuola o l’ospedale? Invece no: pubblicità martellante, palinsesti identici a quelli della tv commerciale, programmi comprati "a pacchetto" da società esterne svilendo ed emarginando le grandi risorse interne di professionalità. Intanto, «lo Stato dà poche risorse al servizio pubblico, lo tiene in obbedienza»: non a qualche elevato principio costituzionale, ma alla partitocrazia e alle sue logiche spartitorie, implacabili e identiche dalla cosiddetta prima repubblica. «Una situazione aberrante, un po’ come qui avere i primari nominati dalla politica: se sei malato cerchi il chirurgo bravo, non quello di partito…».
Nella situazione data, «a che serve la Rai? In trent’anni, nessun dirigente ha mai saputo dirmelo» lamenta Squizzato. Altrove lo specifica una legge fondativa, ad esempio per la BBC o la ARD tedesca («dove la domanda di che partito fosse il direttore lasciava interdetti i colleghi tedeschi»); qui invece «la Rai è bottino di guerra di chi vince le elezioni. Non bisogna lamentarsi se poi si perde, quando non si sono cambiate le regole finchè si governava». Il partitismo, «eredità del fascismo» con la sua pretesa di sussunzione dell’intera società nel corpo politico, domina e impera come ai tempi della "tessera del pane", e «chi, informando, dovrebbe controllare, è controllato». In tale circostanza «il problema non è solo Minzolini: è anche la Berlinguer», al di là dei giudizi di qualità. È la nomina voluta dalla politica, indipendentemente da tutto.
Si deve ripartire, insisteva Squizzato non dalla buona volontà ma dalle regole, quelle che oggi rendono irremovibili i direttori di tg (salvo Lerner, che a suo tempo fece l’atto molto poco italiano di dimettersi). A che serve la Rai, dunque? Si parlava di vendere vari canali, anche a centrosinistra: Squizzato ricorda al riguardo l’unica conversazione telefonica avuta con Prodi, allora al governo, e un recente confronto pubblico con un senatore di tale schieramento, imparentato con un potente editore. «Ai miei studenti del master di giornalismo a Milano, con la loro aspirazione giovanile a farsi sacerdoti della verità, dico che i giornalisti non devono mai dire il falso. Devono dire la verità, ma certo non sempre possono dirla tutta: quella scomoda per l’editore?». Chi dunque può dire tutta la verità, ma proprio tutta? Il servizio pubblico: ed è a quello che serve la Rai. Per raccontare l’Italia vera, non quella dei personaggi da talk show; per raccontare il lavoro, la ricerca, la cultura e lo spettacolo, la scienza, il volontariato; la vita quotidiana dei piccoli centri, della provincia, delle regioni.
«Il mio» conclude Squizzato «non è un esame morale, è culturale. La cultura individualista, edonista e narcisista prevalsa dagli anni Ottanta è saltata con la crisi. Sono fiducioso, non solo perchè ho il dovere dell’ottimismo, non solo perchè mi sembra che si comincia a capire, ma perchè la realtà è più forte dell’ideologia».
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