La tv che non c’è

Intervista a Gilberto Squizzato, giornalista e autore. Un dipendente che la Rai tiene inspiegabilmente in panchina da cinque anni

La farfalla della Rai ha le ali spezzate. Un debito che cresce ogni giorno con i partiti che occupano, di fatto, ogni spazio. E mentre divampano le polemiche su alcune trasmissioni, AgCom diffida il Tg1 e Fini propone la privatizzazione della Rai.
È una possibile risposta? Quali sono le ragioni di una tv pubblica oggi?
Giriamo le domande a Gilberto Squizzato, da più di trent’anni giornalista, autore di alcune delle fiction più innovative e originali è un dipendente che la Rai tiene inspiegabilmente in panchina da cinque anni, nonostante una sentenza del Tribunale del lavoro di Milano che nel 2008 ha ordinato il suo pieno reintegro.
«Non sono d’accordo con Fini: il servizio pubblico radiotelevisivo è e deve restare un bene comune inalienabile: esattamente come l’acqua. Abbiamo tutti diritto ad un’informazione autenticamente pluralista che dia voce a tutti, soprattutto a coloro che non ce l’hanno. Crediamo davvero che pochi potentissimi network privati si faranno carico di esprimere la ricca pluralità di voci che sale da tutto il paese e che fa così fanno così fatica a trovare un po’ di eco nelle tv commerciali?»
Intanto però la Rai continua ad essere occupata dai partiti e spartita in parti terribilmente diseguali? Fini con la privatizzazione vuole mettere i partiti alla porta della tv e della radio pubbliche.
«In Italia ci trasciniamo ancora, inconsapevolmente, un’eredità che non ho esitazioni a definire fascista. Il fascismo non fu solo squadre d’azione e chiusura del Parlamento democratico. Fu anzitutto la pretesa della politica di rappresentare tutta la nazione: ma una nazione non è solo politica, ci sono anche “corpi intermedi”, forme di associazione e rappresentanza che esprimono una complessa varietà di mondi. Quello che io propongo è consegnare la gestione del servizio pubblico radiotelevisivo ad un Consiglio di amministrazione in cui siano rappresentati i lavoratori, l’università, gli artisti, i creativi, il volontariato, gli utenti, le regioni, l’editoria, ecc. Non è proposta radicale e impraticabile, perché altrove accade proprio così: anzitutto in Germania».
E che interesse avrebbero a veder ridotto il proprio peso numerico nel CdA?
«Quello di non rischiare nulla quando perdono le elezioni. Una Rai autonoma e
indipendente sarebbe una garanzia per tutti i partiti».
E con la privatizzazione voluta da Fini cosa accadrebbe?
«Fatte salve le riserve indiane di pezzi minuscoli e minoritari di servizio pubblico “garantito” (ma sarebbe impossibile!) da Tg e Gr privati finanziati dallo stato tutto il resto dei programmi finirebbero per dipendere esclusivamente dal sistema pubblicitario. È questo che vogliamo? Telefilm, fiction, intrattenimento, inchieste, racconto del reale, sport… tutti i palinsesti assoggettati agli interessi di chi compra e vende spot?» 
Cosa direbbe a Fini, se lo incontrasse?
«Ci ripensi Presidente. Il problema del pluralismo politico, civile, culturale, territoriale di questo paese non si risolve con la privatizzazione».
Ma privatizzando gli italiani risparmierebbero 1.300 milioni di canone…
«Sa quanto costano le provincie? 14 milioni di euro, dieci volte tanto».
Gilberto Squizzato, per Minimum Fax, ha pubblicato qualche mese fa La tv che non c’è (come e perché riformare la Rai), un libro nel quale smantella pregiudizi e luoghi comuni e va alla ricerca delle motivazioni di fondo che sole giustificano l’esistenza di un servizio pubblico radiotelevisivo per offrire infine proposte concrete e argomentate di una sua radicale rifondazione.

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 23 Ottobre 2010
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