“Come cambia l’acqua”: tariffe e investimenti al lumicino e leggi che cambiano
Il servizio idrico integrato al centro di una mattinata di convegno ndetta da Agesp spa. Quali scenari dopo l'abolizione degli ATO, la bocciatura del modello lombardo e la remissione alle province della partita acqua?
Acqua: fonte di vita per gli esseri umani, fonte di un sacco di problemi e costi per gli enti locali. Il classico servizio essenziale, affamato di risorse che perennemente mancano e piagato da una legislazione che cambia molto più rapidamente di quelle che sono le esigenze concrete.
Di questo si è parlato stamane a Busto Arsizio in un convegno promosso da Agesp spa per "fare il punto" sugli ultimi sviluppi e offrire un’occasione di confronto concreto fra operaturi pubblici e non. In particolare sull’abolizione degli ATO, gli ambiti territoriali ottimali sui quali nello scorso decennio si è combattuta anche qui in provincia di Varese un’aspra battaglia politica, con i Comuni, soprattutto i più piccoli, intimoriti di vedersi togliere il controllo sulla propria rete idrica.
Il tema è fondamentale per cittadini, imprese, enti locali. Lo ha detto il sindaco Farioli introducendo l’incontro, e a ragione. Il momento è importante: come emergerà dalle relazioni degli ospiti, il quadro legislativo è in pieno movimento, si spera in vista di una sistemazione finalmente stabile dopo che per diciassette anni dalla legge Galli del 1994 si è rincorso l’obiettivo di un cambiamento della gestione del settore, fin qui culminato nella più classica provvisorietà permanente. Il 27 dicembre scorso la regione Lombardia ha approvato la nuova legge 21/2010, una “novella” come specificherà l’avvocato DaniloTassan Mazzocco esplorando il quadro legislativo, che raccoglie il dettato della sentenza 307/2009 della Corte Costituzionale. La quale, infliggendo un sonoro schiaffo al modello lombardo di gestione delle acque, aveva sentenziato l’incostituzionalità del modello bastato sulla separazione tra erogazione e gestione, adottato nel 2003 e poi modifcato due volte nel 2006 e 2009. La stessa Corte, come ricordava Farioli, ha poi sancito la liceità delle tre proposte referendarie relative al tema dell’acqua pubblica. Il sindaco ha anche ricordato che con Agesp spa si è avviata una raccolta di fondi a favore delle zone alluvionate del Veneto. Lì, di acqua ne hanno vista fin troppa.
Per la società che a Busto gestisce la rete idrica parlavano la presidente Basalari, che ricordava gli investimenti fatti e il pareggio di bilancio, e il direttore Carraro. I temi rilevanti del momento sono quelli di investimenti e tariffe, e i modelli di gestione: quello detto in house, pubblico, e quello privato.
Come spiegava l’avvocato Tassan Mazzocco, la legge regionale 21/2010, forse l’unica emanata in ottemperanza alla scadenza amministrativa per la ristrutturazione del servizio idrico, doveva recepire la citata sentenza 307/2009 della Corte costituzionale e decidere di che morte far morire, il 31 dicembre, gli ATO, individuandone il soggetto “erede”. Ciò è stato fatto demandando il tutto alle province (e al Comune di Milano che già faceva ATO a sé), che dovranno nominare un “ufficio d’ambito” in forma di azienda speciale, senza aggravi per l’ente pubblico – ossia presidente e consiglieri non riceverebbero compensi; le decisioni di tale ufficio dovranno essere peraltro soggette ad una conferenza dei sindaci in rappresentanza dei Comuni, che potrà accettare con silenzio-assenso entro i 30 giorni, oppure fare richieste alle quali l’ufficio sarà tenuto ad adeguarsi. L’ufficio d’ambito andrebbe istituito entro il 1° luglio; ma nelle more dell’approvazione del decreto milleprooroghe, questo termine è stato ridotto al 31 marzo. Dunque, il tempo per le province stringe. Tanto più che andrà approvato un documento di sintesi con ricognizione sulle gestioni esistenti, da cui dovrebbe venire un piano d’area; e da qui discenderebbe la decisione di andare a gara o all’affidamento in house.
«Il punto di non ritorno» è stata la sentenza della Corte, «che giudicava incostituzionale un articolo della legge regionale del 2006, violativo di due articoli della costituzionale e in contrasto con il Codice dell’Ambiente sempre del 2006, ambito di competenza esclusiva dello Stato. Il Codice non prevede separazione tra gestione ed erogazione: è anche vero che nemmeno la esclude esplicitamente». La Regione a questo punto ha rinviato alla legislazione nazionale (commi 2 e 3 art. 23bis della legge Finanziaria per il 2009): quindi o scelta con gara d’appaltp di un soggetto affidatario del servizio, o sistemazione mista con il privato al 40% come da legge Ronchi, oppure affidamento in house a società contraollata da ente pubblico, possibile solo qualora le condizioni non diano la possibilità di ricorrere al mercato, con tanto di parere preventivo dell’autorità garante per la concorrenza. E come precisa il DPR 168/2010, che fa da regolamento attuativo del citato art.23bis, per l’affidamento in house è previsto che i bilanci debbano essere in utile, senza trasferimenti a tal fine all’ente pubblico, eccetto che per investimenti; che almeno l’80% degli utili siano reinvestiti nel servizio, che le tariffe siano inferiori alla media registrata. Condizioni da verificare di anno in anno, pena la revoca dell’affidamento e il passaggio a gara. Tutto ciò a tutela della concorrenza, ma, va detto, di fatto con esito punitivo nei confronti di chi spesso da decenni gestisce i servizi locali. Anche il sindaco di Varese Attilio Fontana, nella sua veste di rappresentante dell’Anci (associazione comuni italiani), avrà qualcosa da ridire.
Nella legge regionale, pur “cassata”, rimane viceversa l’indicazione della possibilità di creare una società patrimoniale unica del territorio, a capitale interamente pubblico, ma che rappresenti almeno i due terzi degli enti locali: a questa la provincia può dare il ruolo di stazione appaltante del servizio.
Il punto di vista interno alla Regione era affidato alla dottoressa Viviane Iacone dell’ufficio ambiente,ricordava che più che gli acquedotti, sono fogne e depuratori a preoccupare; qui mancano dai 3 ai 5 miliardi di euro in investimenti e strutture,. Servirebbe un assetto stabile per qualche anno, e gestioni meno frammentate invece del pulviscolo odierno in cui circa 700 comuni, la metà di quelli lombardi, hanno ancora gestioni “in economia" su uno dei settori. «La frammentazione ostacola anche l’industrializzazione, mentre servono professionalità, tecnologie, strumenti: quello idrico è un servizio tecnicamente ed economicamente difficile da gestire». E, individuati i gestori d’ambito, bisogna programmare fabbisogni, infrastrutture, piani d’intervento, costi, tempi. Numerose sono ancora in Lombardia le non conformità a livello regionale in fatto di reti e depuratori (velo pietoso su Milano città, in ritardo pluridecennale). E i piani d’ambito andranno visti dalla Regione per valutarne la rispondenza e coerenza con il Piano di tutela delle acque e il Piano di Distretto di bacino, entrambi di livello regionale.
Renato Drusiani, direttore dell’area area idrico ambientale di Federutility, la federazione che riunisce 451 aziende di servizi pubblici di gas, acqua ed energia, ricorda le sanzioni per inadempienze varie che dall’Euopa piovono sull’Italia, anche per i mancati affidamenti del servizio in numerosi degli ATO appena aboliti. Federutility non appoggia i quesiti referendari relativi all’acqua, rilevando che non vi è, tecnicamente parlando, una privatizzazione della medesima in quanto tale. «Nemmeno in Olanda» l’intero ciclo dell’acqua è al 100% pubblico. È un fatto che al sistema acqua italiano servono investimenti, risorse, «qualcosa come 64 miliardi di euro», mentre «è in forte affanno», messo non molto meglio di quelli degli ex paesi del blocco sovietico, limitato da tariffe molto basse, alti tassi di reflui non trattati per carenza di impianti, problemi gravi soprattutto al sud. Quanto al presunto interesse dei privati per il businesse dell’acqua, «dopo le prime partecipazioni entusiastiche di fine anni Novanta», si registrerebbe uno stabile scarso interesse. Mancano le risorse, semplicemente. E le tariffe basse fanno male anche a pubblico: «il privato può non partecipare alle gare, il pubblico mangia la minestra che il convento passa».
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