La memoria poggia sulle nostre parole
Usare il termine «olocausto», quando si parla dello sterminio degli ebrei d'Europa, non è corretto. Primo Levi usava questo termine malvolentieri. La parola esatta è «shoah»

Nel «Giorno della memoria» c’è sempre qualche aspetto legato alla comunicazione che assume toni grotteschi. Due anni fa, una scuola media della nostra provincia voleva riprodurre (e per fortuna non ci riuscì) un campo di sterminio. Un realismo inutile e di cattivo gusto, ma soprattutto poco educativo. Quest’anno, nella foga di dare risalto alla propria iniziativa, c’è chi ha parlato di «portare l’olocausto (tra l’altro il termine è sbagliato) sul palco», cosa che si spera non avvenga perché sarebbe piuttosto preoccupante per il pubblico e le forze dell’ordine. Al di là di questi casi limite, la maggior parte delle iniziative per il «Giorno della memoria» è molto interessante e si concentra soprattutto nelle rappresentazioni teatrali e cinematografiche, il cui contributo è stato, ed è determinante, nel mantenere viva la memoria della shoah.
Il termine «shoah», che è quello corretto per indicare lo sterminio degli ebrei d’Europa da parte dei nazisti, è stato introdotto nel Vecchio Continente grazie a un regista francese, Claude Lanzmann, che nel 1985 intitolò così un suo film. Fino ad allora, il termine utilizzato era «olocausto» che era entrato di prepotenza nella comunicazione di massa grazie allo sceneggiato televisivo americano «Holocaust», trasmesso alla fine degli anni Settanta.
Va ricordato che Primo Levi non era d’accordo nell’utilizzare la parola «olocausto», introdotta nella letteratura legata ai campi di sterminio dallo scrittore e premio Nobel per la pace Elie Wiesel, autore del libro “La notte” e anch’egli, come Levi, deportato e sopravvissuto ad Auschwitz. «Io uso questo termine Olocausto malvolentieri, perché non mi piace. Ma lo uso per intenderci» disse Levi in un’intervista.
Non aveva tutti i torti l’autore di “Se questo è un uomo”. La parola «olocausto», sebbene condivisa da tutti, evoca l’idea del sacrificio, del rito, del martirio, spostando così il significato del massacro di milioni di persone nelle camere a gas naziste su un piano meno violento.
Non si tratta, dunque, di precisione linguistica fine a se stessa o di pignoleria. Gli ebrei il termine «shoah» lo usavano già quarant’anni prima dell’uscita del film di Lanzmann, perché il suo significato era l’unico che indicava senza ambiguità ciò che era successo nei campi di sterminio nazisti.
Con fatica, la nuova parola si è fatta largo nel vocabolario degli europei, spesso stravolta nella sua trascrizione: sh’oah, shoà, shoa. Non importa. Cio che è invece importante, quando si parla dello sterminio degli ebrei d’Europa, è sapere che la parola da usare è «shoah». Nessun’altra.
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