“Noi esuli, testimoni scomodi di un pezzo d’Italia che non è più”
Sissy Corsi, presidente dell'Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, racconta l'esodo degli italiani d'Istria e Dalmazia a Villa Recalcati
Sissy Corsi, una vita da avvocato e insegnante, è una donna minuta e fermissima. Quando si tiene un evento legato al giorno del Ricordo, è sempre presente. La presidente dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia era particolarmente soddisfatta presentando a Villa Recalcati in Varese la mostra di pannelli e bandiere dedicata alle scuole, che può fornire spunti per integrare una pagina di storia trascurata. Una pagina di storia che spesso gli insegnanti stessi non conoscono granchè. Il silenzio è stato infatti per decenni il dolore più grande per i trecentomila italiani fuggiti dopo la Seconda Gierra Mondiale da quella che era ormai diventata Jugoslavia. Più forte della nostalgia, più assordante degli spari che avevano segnato il periodo del terrore e della fuga.
«Stemo diventando tutti vecetti» dice Corsi nel suo dialetto, che all’orecchio non addestrato di noi insubri ricorda il veneziano. Per la provincia, che ospita anche il ritrovo natalizio degli esuli e dei loro discendenti, ha parole di lode; così per le scuole varesine, ben sei quelle che hanno partecipato al bando regionale legato al Giorno del Ricordo, record regionale. Una sensibilità frutto della presenza, discreta ma percettibile, di tanti che giunsero qui a fine anni Quaranta e spesso anche dopo, magari dopo desolanti soggiorni in campi profughi. Da esuli. E da incompresi. Che spesso hanno taciuto per decenni, fra rabbia, dignità, rassegnazione, nel sospetto di non essere capiti.
«È dai più giovani che dobbiamo ripartire, far conoscere loro questa storia, far capire che è un pezzo della storia d’Italia. La guerra, che non doveva mai essere dichiarata, non la dichiarammo noi, istriani e dalmati, la dichiarò l’Italia». O meglio, il governo fascista, nella persona del Duce Benito Mussolini, addì 10 giugno 1940. L’inizio della fine, anche se allora pareva una passeggiata. Nell’aprile 1941 si fece la follia di associarsi alle armate naziste nella distruzione della Jugoslavia, e il destino delle terre adriatiche, che per antica tradizione secolare erano legate a Venezia e a un’italianità "di confine", fu segnato. «L’Italia ha perso la guerra, e l’ha persa male, finendo con la guerra civile» dice Corsi. «Per noi, non è finita il 25 aprile. È continuata nel modo peggiore, con gli infoibamenti e l’esodo. Siamo andati via in 350.000 per rimanere italiani. E oggi ricordiamo per i nostri genitori, che abbandonarono tutto per farci crescere italiani in un Paese libero». E negli anni del silenzio, «quando politicamente la storia è stata negata ci siamo trovati con la nostra associazione, salvaguardando le radici, il nostro dialetto che ancora in famiglia parlavamo, io sono cresciuta parlandolo con la mamma, invece il papà mi parlava in buon italiano… ed eccomi avvocato» racconta con la loquela di chi è abituato a usare la parola come strumento di lavoro. «Bisogna riflettere sulle guerre, per evitarle, ma anche che i giovani sappiano, quando vedono il bel mare di Croazia, che quella un tempo era Italia; che quella terra è il prezzo pagato per la guerra perduta». Nella sua Pola, Sissy Corsi non ci è tornata più d’un paio di volte, una quindicina d’anni fa. Lì resta una piccola comunità italiana, malvista da quelli che andaraono via. Il mare, i monumenti sono quelli; il cimitero no. Le tombe dell’epoca austroungarico erano ancora al loro posto, racconta, quelle di epoca italiana no. Le dinamiche dell’odio erano già attive durante la Grande Guerra, quando sloveni e croati erano duri e fedeli soldati degli Asburgo sul fronte del Carso, prima ancora che fascismo e comunismo significassero qualcosa. Il male della divisione veniva da lontano.
Questa sera anche Anpi organizza un incontro pubblico sul tema del dramma delle foibe e dell’esodo. È innegabile che le prospettive politiche di partenza siano diametralmente opposte. È sempre stata la destra a sostenere le posizioni degli esuli, non senza strumentalizzare; è sempre stata la sinistra, in quanto erede del vecchio PCI, a mettersi sulla difensiva su questo sanguinante "fronte orientale" della coscienza nazionale. Gli jugoslavi erano comunisti, in quel 1943-1947. Prima di tutto, però, erano slavi: Anpi parla di "violenza nazionalista di Stato" per descrivere l’accaduto. È un primo passo, ma Corsi è scettica sulla possibilità che si ricuciano le ferite aperte da decenni. «Anpi ha sempre avuto la posizione di far ricadere tutte le responsabilità sul fascismo», che pure ne ha di decisive. Gli assassini erano quasi sempre slavi, sotto la bandiera comunista dell’esercito di Tito. «Nelle foibe non sono andati solo i fascisti» ribadisce Corsi, «ma gli italiani». In quanto tali, spesso e malvolentieri. Conta poco poi quanti esattamente fossero, qualche migliaio in totale, ma fu sempre orribile. Il nuovo regime vittorioso voleva spazzare preventivamente qualunque nucleo di resistenza e identità "ostile". Il silenzio, allora e dopo, fu «una questione politica», inquadrata nella Guerra Fredda. Non fu certo sola responsabilità di un PCI imbarazzato "glissare" sulla questione degli esuli: il governo aveva interesse a mantenere rapporti almeno decenti con il vicino jugoslavo, ben armato e in relazioni ambigue con l’Occidente dopo il 1948. «Eravamo testimoni scomodi» riassume Corsi. «Dopo il trattato di Parigi (la pace che sancì la disfatta italiana, 1947) i debiti di guerra furono pagati anche coi beni da noi abbandonati, ma questi superavano la cifra. La Croazia non ha ancora reso la differenza. E lo stesso Stato italiano, ci ha risarciti solo a spizzichi e bocconi».
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