Le memorie operaie e la fabbrica della creatività
In via Leonardo Da Vinci le case del villaggio operaio Bellora custodiscono i ricordi della Gallarate industriale. Dopo la fine del tessile nel 1984, l'enorme stabilimento è diventato sede di artigiani e creativi
La quinta puntata di “Cento metri di città“
Se volete capire come cambia il lavoro a Gallarate, venite in Viale Leonardo Da Vinci: nell’ultimo tratto della via, alle porte di Arnate, si attraversa l’ex Bellora, ieri una fabbrica, oggi un mosaico di imprese diverse attive in mille campi. Ieri il cotone, oggi le agenzie di comunicazione e l’idea di farne una “piazza” di creatività e di eventi.
Non era una fabbrica, la Bellora, era un universo intero: stabilimento, case per gli impiegati e palazzine per gli operai, mensa e teatro sociale, dopolavoro e campi da bocce erano tutti raccolti tra viale Leonardo Da Vinci e la via privata che porta il nome degli industriali del cotone. «Tutto costruito dai Bellora, che allora sì che ci pensavano ai lavoratori. Di imprenditori così ne nasce uno ogni cento anni, creda a me» spiega Ernesto Effimeri, che vive in una delle case anni Trenta del villaggio operaio, proprio di fronte all’opificio, una piccola Crespi d’Adda gallaratese. «Qui nelle case su via Leonardo da Vinci vivevano gli impiegati, là dietro gli operai», dice indicando le due palazzine a due piani tra via Bellora e l’Arnetta (edificio a destra nella foto).
Il cotonificio Bellora copriva l’intera filiera nei suoi stabilimenti: il cotone diventava filato nelle fabbriche di Albizzate e Somma, nell’enorme fabbrica di via Leonardo Da Vinci il filato diventava tessuto, che veniva anche tinto o stampato. Si producevano anche velluti: «Uscivamo tutte bianche, che fatica» ci racconta Rosina Buono, che abita nella palazzina di destra e a metà mattina sta curando l’orticello dietro casa. «Io venivo da Tito, vicino a Potenza, è stato il mio primo lavoro, nel 1968». Giacomo Angeloni («detto Jack») ha 75 anni ed è stato assunto quand’era giovanissimo: «Ci ho lavorato per quarant’anni, dai 14 ai 54 anni. Prima come garzone… quante pedate mi davano, allora non ci si faceva problemi. Ma ti insegnavano a lavorare. Poi sono andato al reparto stamperia. Abitavo a Casorate, venivo al lavoro in automobile o in moto, si lavorava a ciclo continuo e se avevano bisogno dovevo scendere a Gallarate, anche di notte. Per questo poi mi diedero la casa accanto alla fabbrica. In stamperia avevamo i cilindri giganteschi in rame, poi arrivò la stampatrice orizzontale, capace di stampare 70mila metri di tessuto al giorno». Allora nello stabilimento lavoravano 1800 persone, Gallarate era al centro del commercio di cotone e tessuti, da mezzo mondo.
Lo ricorda anche il racconto di Ernesto Effimeri: «Mio suocero morì per un incidente sul lavoro, la casa l’abbiamo avuta dai Bellora come risarcimento. Una sera stava uscendo, arrivò un camion dalla Turchia, c’erano da scaricare balle di cotone. Lui si fermò, prese il muletto. Ma durante la manovra si rovesciò e lui rimase schiacciato dal carico. Non morì subito, ma due anni dopo, per le conseguenze delle lesioni al fegato che aveva subito». L’azienda diede alla sua famiglia la casa e poi assunse la figlia, Marisa Bianchi (che è appunto la moglie di Ernesto: nella foto), che si ritrovò a lavorare nella stessa azienda dove già c’era lo zio. «Avevo diciannove anni, ho fatto poi l’impiegata. Quando la fabbrica ha chiuso, nel 1984, siamo andati avanti a gestire l’amministrazione dell’ultimo stabilimento rimasto, il “Val Seriana”, a Gazzaniga nella bergamasca». Oggi si godono la zona tranquilla: anche l’Arnetta ha smesso di far paura, almeno non come un tempo: il letto del torrente – che prima s’inoltrava dentro lo stabilimento – è stato spostato sotto la strada, anche quando è in piena non esce più. Oltre il torrente c’è il complesso del dopolavoro. «C’erano le piste da bocce, avevamo la compagnia teatrale» ricorda ancora Giacomo Angeloni, l’operaio. «Io ho messo su la squadra di ciclismo: “Bellora-Colombo”, perchè metteva i soldi anche il Colombo arredamenti. Avevamo le maglie di lana, siamo arrivati ad essere in sessanta». Tira fuori la sua palmerina (nella foto), la mostra al sole nel prato tra le due palazzine, dove un tempo c’erano anche i giochi per i bambini. Oggi negli spazi dell’ex dopolavoro il Comune ha messo il centro cottura che prepara i pasti per le scuole.
E lo stabilimento? Se ne sta ancora lì di fronte, gli alberi nascondono le facciate grigie d’intonaco e mattoni. La palazzina Liberty degli uffici è ancora bella vista da fuori. Un mondo è scomparso, un altro ne ha preso il posto: dentro, tra i cortili su cui affacciano le ciminiere, ci sono piccole aziende artigiane e realtà di servizi. Nella corte all’ingresso ci sono alcune officine meccaniche, ma anche il laboratorio “Parole Insieme”, gestito da un gruppo di giovani educatori guidati da Daniele Somenzi, che lavorano con i bambini che soffrono di dislessia e disturbi di apprendimento: uno spazio coloratissimo. L’unica azienda industriale di grandi dimensioni rimasta qui è la Parah, marchio ben noto che dà ancora lavoro a centosettanta persone: anni fa hanno scelto di trasferirsi qui e di recuperare i vecchi capannoni come sede efficente, con tanto di pannelli solari sui tetti. Il tessile vive ancora grazie alla creatività, che qui è di casa: «Noi siamo nati nel 2002 e ci siamo trasferiti qui nel 2007» spiega Giuseppe Sangiorgio di Hagam, agenzia di comunicazioni (in cooperativa) che ha sede nel “complesso artigianale”. Oggi nel vecchio stabilimento Bellora si progettano campagne di comunicazione, guerrilla marketing, promozione per eventi come Cortisonici, il festival del cortometraggio di Varese, o per progetti particolari come il film documentario girato ad Hasankeyf, nel Kurdistan turco. Tutto con una grande attenzione soprattutto al mondo del web.
Un altro pezzo della fabbrica della creatività si trova poco più avanti: dentro in un’ala a shed – gli spazi con vetrate sui tetti – c’è Orangotown. Un’agenzia creativa, ma anche un laboratorio di graffitismo e street art «contro il graffitismo vandalico»: sono stati quelli di Orangotown a dipingere il grande murale di via Manzoni, a cui hanno lavorato otto artisti diversi. La sede ha aperto due anni fa, 400 metri quadrati: «Abbiamo lasciato volutamente lo spazio industriale, senza toccare le strutture» spiega Alfiero Marangon. I finestroni che un tempo illuminavano i telai tessili e gli operai danno oggi luce ai murales coloratissimi e ai bidoni trasformati in opere d’arte. «Abbiamo anche un’idea per il grande cortile che sta davanti, per decorarlo tutta. Potrebbe diventare uno spazio per eventi, come ce ne sono a Milano, in via Mecenate o in zona Tortona. Sarebbe uno spazio meraviglioso: un progetto ce l’abbiamo, abbiamo discusso anche con i vicini che sono disponibili». Tanto più che gli antichi spazi industriali sono enormi e di grande fascino. Ci sono voci di un interesse per un birrificio artigianale che potrebbe rilanciare la zona anche come luogo d’incontro e per eventi. La grande fabbrica potrebbe avere un futuro: per rilanciare i luoghi non è sempre necessario abbattere e costruire palazzi o centri direzionali.
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