Mio nonno e i miei zii, massacrati dalla furia di Mladic

Bahra Harbas, 29 anni, varesina di origini bosniache, racconta la sua fuga in Italia dalla guerra e dalla pulizia etnica: i maschi della sua famiglia trovati nelle fosse comuni di Srebrenica

bahraIl prossimo 11 luglio si terranno i funerali del nonno di Bahra. Troveranno pace anche i resti di due suoi zii, di amici, conoscenti e tante persone che gli antropologi forensi della Croce Rossa Internazionale sono riusciti a recuperare e riconoscere nelle fosse comuni intorno a Srebrenica, dopo il massacro che gli uomini comandati dal generale Radko Mladic fecero nel corso della più spaventosa operazione di pulizia etnica avvenuta in Europa dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Bahra Harbas, 29 anni, di origini bosniache e oggi cittadina italiana, abita a Varese e ha deciso di raccontarci la sua storia. Un salto indietro di tanti anni nelle sue parole, da lei già vissuto quando giovedì scorso, verso le due del pomeriggio, dopo aver stretto forte i pugni, pensò “giustizia è fatta”: le radio e i siti internet di tutto il mondo avevano appena dato la notizia dell’arresto del “boia di Srebrenica”, Ratko Mladic. Poi la telefonata al marito: «Hai sentito?»; lui sapeva già tutto: era stato avvisato da amici che vivono ancora là, vicino alla loro casa che era Bosnia e oggi fa parte della Repubblica Serba.
Bahra, “Ba” per gli amici, lavora in uno studio da commercialista. Oggi conduce una vita normale, è al settimo mese di gravidanza e darà alla luce una bimba.
Ma i suoi grandi occhi tagliati a mandorla diventano lucidi quando comincia a raccontare di come tutto ebbe inizio.
«La mia vita ha una data che è uno spartiacque – racconta. È il 17 aprile del 1992. Avevo 10 anni e srebrenicada quel giorno me ne andai da Sebrenica, dove vivevo con mia madre, una mia sorella più grande, e mio fratello piccolino. Mia sorella maggiore studiava a Sarajevo ed abitava dal fratello di mio papà: quando la città fu assediata andò insieme a mia zia e le loro due bambine in Croazia da un parente: lì la guerra era finita da un pezzo, era una zona sicura. Poi c’erano i miei nonni. Mio padre, invece, era in Italia: ai tempi c’era una grande crisi in Bosnia e lui era venuto qui per lavorare nell’edilizia e aiutare la mia famiglia; partì nell’89. Guadagnava bene, ma era preoccupato».
Perché?
«Ci diceva ‘state attenti, ci sono voci che sta per succedere qualcosa’. Per questo stava preparando un viaggio per portarci via. Ci accorgemmo presto che aveva ragione. Si cominciò a respirare un clima strano. Per me, tutto ebbe inizio a scuola. Un giorno ci trovammo in classe con un sacco di banchi vuoti: erano quelli dei bambini serbi. Eravamo piccoli e non sapevamo cosa stesse accadendo. Ricordo poi che dopo qualche settimana mio nonno andò in Serbia a fare la spesa: Sebrenica è un centro a pochi chilometri dal confine: un po’ come andare in Svizzera, insomma. Tornò a casa turbato: all’uscita di un supermercato, gente armata gli aveva puntato la pistola in faccia per via del copricapo che indossano i musulmani dalle mie parti. Gli dissero: ‘Sporco musulmano, se ti vediamo ancora da queste parti ti ammazziamo’. Poi gli fecero togliere il cappello e lo mandarono via dandogli del bastardo».
Poi cosa accadde?
«Mia madre era preoccupatissima, non sapevamo cosa fare. Telefonavamo spesso a mio padre. Cominciammo a dormire nei boschi o nei campi. Al mattino tornavamo a casa per lavarci e andare a scuola. C’erano brutte voci sui serbi: dicevano che sarebbero potuti arrivare i soldati per portarci via. Dicevano che sarebbero arrivati la notte».
Sono i mesi in cui la Bosnia dichiara l’indipendenza (3 marzo 1992) dopo il voto di un referendum, che non viene però accettato dai serbi. È la guerra civile: Sarajevo assediata, le principali città bosniache attaccate dalle milizie serbe. Si attua il disegno di Milosevic: “La Grande Serbia”.
La famiglia di Ba è costretta a scappare, e in fretta: il 17 aprile l’esercito serbo lancia un’offensiva sulla zona. Restano i nonni, contadini, che hanno terra e animali.
bahra srebrenica«Il 18 aprile 1992, all’alba, partì un pullman per la Croazia: avevamo passato anche l’ultima notte fuori casa. Mio padre ci aveva spedito dei soldi da dare anche ad altre persone che in quel momento non potevano permettersi il viaggio; dopo averlo avvisato della partenza, prendemmo l’indispensabile e salimmo sul pullman: niente collanine, niente orecchini, ci avevano detto: ‘se i cetnici (soldati serbi nda) li vedono, ve li strappano di dosso’».
Com’è stato il viaggio?
«Avevamo paura. Ricordo la notte che arrivammo lungo il fiume Sava, al confine con la Croazia: non c’erano ponti e bisognava attraversare il fiume con le barche. Quando arrivò il nostro turno ci dissero che era buio e dovevamo aspettare il mattino successivo, alle 7. Eravamo un gruppo di 15 persone in mezzo alla notte: i soldati potevano arrivare in ogni momento. Arrivò invece un ragazzo croato che ci ospitò tutti e 15 a casa sua per dormire al coperto».
Poi, in Croazia?
«Arrivammo in un campo profughi e poi riuscimmo a ripartire e a ricongiungerci con mia sorella e mia zia. Nel frattempo le cose a Srebrenica si mettevano male: i militari serbi cominciarono ad arrivare in città. Poi, una sera, in televisione, abbiamo visto i soldati che caricavano su pullman e camion persone che conoscevamo: c’erano i miei vicini di casa che non vollero partire con noi. Chiamammo i miei nonni, ma di loro non v’era più traccia. Per fortuna riuscirono a salvarsi: i serbi li portarono in un campo di raccolta e da lì trovarono riparo in Macedonia».
L’incubo di Ba finì pochi mesi dopo, tra campi profughi e ostelli croati. Il padre in auto riuscì ad attraversare Slovenia e Croazia e assieme ad un amico portò la sua famiglia in Italia. Ma non tutti i suoi famigliari ebbero questa fortuna.
«Ho perso quasi tutti i maschi della mia famiglia da parte di mia madre. Abitavano in una città vicina e quando i serbi li obbligarono ad andarsene, si rifiutarono e trovarono rifugio nei boschi. Ho perso mio nonno, due zii (fratelli di mia madre), due cugini del ’72 e del ‘77. Un mio terzo zio fu internato in un campo di concentramento: venne torturato dai serbi e salvato dalla Croce Rossa: ancora oggi non si è ripreso da quella esperienza. Quest’anno siamo stati informati che i resti di mio nonno e di due miei zii sono stati trovati in una fossa comune vicino a Srebrenica: assieme ad altri, come ogni 11 luglio, ci saranno i funerali, a cui quest’anno anche la mia famiglia parteciperà».srebrenica
Ba ricorda alcuni racconti di sopravvissuti: «Una mia cugina fu vittima di un rastrellamento. Mi raccontò che vennero divisi in tre file: anziani e bambini, donne giovani, uomini. Mio cugino teneva in mano suo figlio: il bimbo venne preso e consegnato alla madre, lui messo in una colonna: sparì nel nulla». Gli uomini venivano deportati o giustiziati, come avvenuto a Srebrenica, dove nel luglio del 1995 vi furono oltre 8.000 esecuzioni. Le donne giovani spesso venivano violentate per dar seguito alla follia dello stupro etnico. Le selezioni venivano fatte da lui di persona: Mladic.
Ba non odia i serbi, ma non può perdonare: «Come potrei guardare in faccia mia madre se perdonassi i serbi per quello che hanno fatto a suo padre, ai suoi fratelli, alle nostre cose?»; è tornata a Srebrenica nel 2003, la sua casa è stata bruciata. «Ho visto le quattro mura annerite di dove sono cresciuta, ora ci crescono gli alberi. Dopo la nostra fuga hanno rubato e incendiato».
Torna a sorridere, Bahra, ora che può parlare della sua piccola, anche se il suo passato ha lasciato il segno: «Oggi pochi ricordano quello che è accaduto a poche centinaia di chilometri dall’Italia. Ma io non lo dimenticherò mai. Ne zaboravimo Srebrenica».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 30 Maggio 2011
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