Abdoul Diaby, da calciatore in Libia a rifugiato in Italia
Nel gruppo di profughi ospitato a Villa Calderara c'è anche un diciottenne promessa del calcio: ha giocato in Costa D'Avorio nella squadra di George Weah e in Libia nell'Al Jazeera Zuara. Ora spera in un futuro in Europa
«Vorrei giocare in una squadra, una qualsiasi: fare il calciatore è il mio mestiere». Abdoul Karim Diaby ha diciott’anni, è onesto e trasparente, a differenza di altri giocatori che nelle conferenze stampa giurano che giocare al Milan (o alla Juve o all’Inter) era il loro sogno fin da bambino. Era una promessa del calcio africano, si è ritrovato profugo in Italia, dopo un viaggio da incubo dalla Libia, in barcone, con approdo a Lampedusa.
«Prima ho giocato all’Africa Sport di Abidjan, la squadra di George Weah. Poi sono andato in Libia per la stagione 2009/2010, giocavo nell’Al Jazeera di Zuara» racconta. Gioca come attaccante, nell’Al Jazeera (in serie B) ha segnato 10 gol in 14 partite, prima che la sua carriera subisse uno stop momentaneo per un infortunio al ginocchio: ha iniziato a fare riabilitazione, ma l’operazione è stata seguita male dallo staff dell’Al-Ittihad, la squadra del figlio di Gheddafi.
Nel frattempo è scoppiata la guerra e così Diaby si ritrova nello stesso dramma che vivono tutti gli altri ragazzi africani presenti in Libia: identificati come possibili mercenari, vengono perseguitati dai ribelli libici, diventano anche vittime di semplici ladri. «Ci sparavano dietro con il mitragliatore» dice Dibay ricordando quegli ultimi giorni in Libia. Un diciottenne nel mezzo della guerra in un paese straniero: «Ho chiamato mio padre al telefono, l’unica possibilità era andare al di là del mare: siamo partiti con il barcone. Chi conduceva la barca non sapeva dove andare, abbiamo vagato in mare, quattro giorni senza mangiare, senza bere, vomitando in mare».
In Italia, da Lampedusa, è andato poi a Varese, di lì a Gallarate, dove è stato anche intervistato da La Gazzetta dello Sport. «A Varese abbiamo incontrato anche l’allenatore Sannino, mi ha regalato la maglia del Varese». Il tecnico biancorosso gli ha detto anche di tenere duro nel calcio, quel che lui vuole fare. Ora palleggia nel parco di Villa Calderara a Gallarate, spera (come tutti) di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato politico, di poter rimanere qui per giocare. «In qualunque squadra, è il mio lavoro». Anche per poter inviare soldi alla sua famiglia rimasta in Costa D’Avorio.
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