Due cappelli sepolti per il funerale della tramvia
Cade oggi una ricorrenza dimenticata: l’ultima corsa del "tramino" della Valganna, la ferrovia leggera che collegava il capoluogo col nord della provincia e la Svizzera, senza inquinare
Da qualche parte sotto le Bettole a Varese ci sono seppelliti due cappelli da ferroviere. Sono lì da 57 anni e qualche ora. Il motivo è un funerale particolare, quello che Felice Carmagnola e il collega Manfredi celebrarono quella sera, il 28 febbraio del 1955 dopo l’ultima corsa della tramvia che collegava Varese a Lavena Ponte Tresa, ma anche a Luino e a Cittiglio, con un sistema che oggi chiameremmo metropolitana leggera ma che tutti, da queste parti, sessant’anni fa, chiamavano “tramino”, o “tramin”.
Solo elettricità. Nessun problema con la neve. Impatto zero, precisione svizzera. Usa queste parole Mario Carmagnola, figlio di quel capostazione che rinunciò ad uno dei suoi due cappelli «rosso, con quattro strisce d’oro e visiera nera» – l’altro è custodito nella sua bara – nel raccontare la storia della tramvia della Valganna, di fianco al camino, nella sua casa di Cunardo (nella foto qui sotto).
«Cade esattamente oggi questa ricorrenza. Per molti non è nulla, per noi, che la ferrovia l’abbiamo costruita, è storia di famiglia. E ogni anno è un ricordo», dice Mario.
Già, perché suo nonno, Evasio Carmagnola, partì con la valigia di cartone e come manovale da Borgo Vercelli alla fine dell’800 proprio per costruirla, la tramvia. «Allora si andava a pala e picco, coi buoi, e serviva tantissima manodopera – racconta. Sta di fatto che in pochi anni l’anello d’acciaio che portava i treni dalle stazioni (ex macello civico di Varese) su per la Valganna e la Valcuvia fino al confine con la Svizzera, fu completato».
Ma la storia non si ferma, perché dopo aver messo i binari, era necessario farli funzionare, questi benedetti treni.
Così nonno Evasio imparò a leggere e scrivere e diventò “assuntore” a Ganna. La linea aveva infatti stazioni vere e proprie e assuntorìe, dove non vi era un capostazione ma personale in grado di badare alla linea e allo scalo minore.
La famiglia si allargò; e dopo le elementari, le tre commerciali e le due tecniche Felice, papà di Mario, e figlio di quel manovale piemontese che costruì la ferrovia, prese servizio a 18 anni come sottocapo alla stazione di Mulino d’Anna (Grantola), poi a Ghirla, e, come capostazione, a Luino e poi a Varese.
La tramvia partì nel 1905 e durò cinquant’anni. Ci passarono due guerre mondiali e un regime. Migliaia di persone ogni giorno la usarono per raggiungere le fabbriche o portare le pere di Masciago al mercato di Luino e la verdura a quello di Varese. Altri, durante l’ultima guerra, dopo aver sfollato qui la famiglia dai bombardamenti angloamericani su Milano, addirittura la usarono per raggiungere il capoluogo, anche tutti i giorni: una sorta di pendolarismo ante litteram.
Aneddoti, su questa ferrovia, sì, ce ne sono, e tanti. Soprattutto durante il fascismo. Un tasto telegrafico originale, poggiato sul tavolo (nella foto qui a sinistra), non è solo un cimelio: ricorda la vicenda del figlio di un capostazione di Luino «il Ghiringhelli». «Suo figlio era antifascista e venne preso dopo l’inizio dell’attività partigiana, nel ‘43. Mio padre lo vide vivo per l’ultima volta sul vagone in direzione Varese: lo avevano pestato le squadre fasciste, gli avevano spaccato la faccia; telegrafò subito al collega di Luino, che arrivò troppo tardi; oramai lo avevano fucilato. Lasciarono il corpo per tre giorni in strada». Oppure quando all’assuntore di Cunardo, un certo Marazzini, in odore di antifascismo «i repubblichini cercarono di far cancellare con la lingua una scritta contro il duce sul muro dell’assuntorìa. A quei tempi il capostazione era un’autorità. Mio padre intervenne, intimò loro di interrompere la purga, e li mandò via. Ovviamente facendo partire un tram per Varese».
Un mondo fatto di corse con la precisione al minuto, e con l’efficienza che veniva garantita da un concetto semplice: non si tollerano ritardi. Giornate di fischietto e paletta cadenzate dagli orari delle partenze fino alla fine della guerra, al boom economico e all’epoca delle grandi industrie di stato che spostarono la politica del trasporto dal ferro alla gomma. Una scelta che si ripercosse anche sulla tramvia, di proprietà della SVIT, la società varesina imprese trasporti, che a metà degli anni Cinquanta decise la chiusura.
L’imperativo era di muovere il Paese in maniera diversa, con autobus a corse più frequenti che fecero dimenticare rapidamente agli utenti lo scartamento ridotto del tramin.
Inutili furono le battaglie, anche sui giornali con lettere e appelli, che vennero combattute da Felice Carmagnola. Alla fine, dopo l’ultima corsa, l’unica cosa che rimaneva da fare era un bel funerale alla tramvia, celebrato coi due cappelli sepolti, quella sera, alle Bettole.
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