La Regione Lombardia difenderà le province davanti la Corte Costituzionale?
Mario Speroni, componente del Comitato legislativo della Regione Lombardia, interviene sull'articolo 23 del c.d. ”decreto salva Italia” che mira alla riduzione degli enti provinciali
Mario Speroni, avvocato e professore dell’ Università di Genova, nonché componente del Comitato legislativo della regione Lombardia, interviene sulla questione posta dall’articolo 23 del c.d. ”decreto salva Italia” che mira ad eliminare gli enti provinciali.
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La giunta regionale della Lombardia sta esaminando, in queste ore, l’opportunità di impugnare, davanti alla corte costituzionale, l’art.23 del c.d. ”decreto salva Italia” (d.l.201/11, convertito nella l. 214/11), nella parte relativa alle province (cc.14-21), che mira a ridurre questi enti previsti dalla costituzione – e, quindi, sopprimibili solo attraverso la sua modificazione – a dei meri fantasmi. E’ da auspicare che la decisione sia positiva, come quella di altre regioni. Desidero qui pubblicizzare la mia presa di posizione, espressa nella riunione del comitato legislativo regionale del 16 gennaio scorso, quando è stato chiesto a questo organo di consulenza della giunta, in campo costituzionale, di esprimere un parere in proposito. Mi astengo volutamente dal riportare le argomentazioni di natura più strettamente giuridica che potrebbero annoiare i lettori.
Ebbene, ritengo – con altri colleghi del comitato – che sia impensabile immaginare che una regione delle dimensioni della Lombardia, con una popolazione di quasi 10 milioni di abitanti – superiore, quindi, a quella dell’Austria, della Svizzera e della Svezia, solo per fare qualche esempio-possa essere governata o centralmente da Milano oppure per tramite dei comuni. E’ chiaro che è necessario che vi sia pure un ente di governo intermedio – democraticamente eletto – così come ha saggiamente previsto il legislatore costituente. Con la nuova legge del governo Monti, invece, alle province – private di mezzi e di personale (è previsto solo un servizio di segreteria)- rimangono solo “funzioni di indirizzo e coordinamento dei comuni”, che non si sa con quali mezzi potrebbero essere esercitate. Si pensi – per esempio – ad un servizio fondamentale, come quello del governo del servizio idrico – cioè,in parole più semplici, della fornitura dell’acqua- di competenza delle province, e che anche il recentissimo “decreto liberalizzazioni”(d.l.1/12 del 24/1/12) stabilisce continui ad avvenire con “dimensioni comunque non inferiori alla dimensione del territorio provinciale”(art.25,c.1).Un recente studio della Bocconi,risalente al dicembre scorso,ha dimostrato scientificamente che la soppressione o lo svuotamento delle province produrrebbe un aumento dei costi,anziché una loro diminuzione. a causa della necessità di trasferire il personale,gli immobili,le infrastrutture a regioni e comuni. I dipendenti provinciali sono circa 56.000-contro i 37.000 delle regioni-secondo il Conto del personale del 2010. Divenuti in parte regionali ,verrebbero a godere di un trattamento economico più dispendioso – per via di un diverso contratto collettivo – causando così, invece di un risparmio, un enorme aggravio di spese, senza contare i problemi di assorbimento sotto il profilo organizzativo e logistico. Quelli trasferiti ai comuni verrebbero ad aggravare le loro finanze, già ridotte al lumicino: bisognerebbe modificare il c.d. ”patto di stabilità”. Vi sarebbe poi da inventariare e trasferire un patrimonio immobiliare e mobiliare immenso (125.000 kilometri di strade, circa 5.000 edifici scolastici, sedi di servizio, mezzi, auto, arredi, dorsali per reti telematiche, magazzini ecc.), il che richiederà molto tempo. Si pensi che non sono ancora definiti del tutto i passaggi patrimoniali dai comuni alle province degli edifici delle scuole superiori, decisi con la l.23/1996 (16 anni fa!). Per quel che riguarda, poi, le competenze da trasferire a regioni e comuni, solo l’individuazione di quelle previste , oltre che dal T.U. degli enti locali (d. l.vo 267/00), dai 164 articoli del d.l.vo 112/1998 e dalle varie altre leggi – statali e regionali che hanno demandato alle province ulteriori compiti, costituirà un lavoro immane. Si tratta di competenze che vanno dal governo del territorio e dell’ambiente, alle acque (compreso il servizio idrico integrato), alla viabilità, ai trasporti, alla protezione civile, al mercato del lavoro (d.l.vo 469/1997). E’ prevedibile un “caos” amministrativo di enorme portata, che inciderà pesantemente sulla vita delle persone. Si pensi solo ai disoccupati ed ai disabili, a favore dei quali solo da pochi anni si era assestato il sistema provinciale dei servizi per l’avviamento al lavoro. Sulla questione delle province conviene ricordare l’opinione di un grande economista e “padre delle patria”, Luigi Einaudi. Egli – quando oramai presagiva il crollo del fascismo ed il ritorno dall’esilio svizzero – scrisse, il 17 luglio 1944, sul quotidiano luganese “La Gazzetta Ticinese”, un articolo dal significativo titolo: “Via il prefetto”, dove proponeva l’abolizione di questa figura, “inoculata nel corpo politico italiano da Napoleone”. In alternativa ad essa, vedeva la provincia – divenuta un’istituzione democratica – quale modo perchè gli “italiani … imparino, a proprie spese, a governarsi da sè”. Le province (che si sarebbero potute chiamare anche “vicinanze”, a simboleggiare uno stato di prossimità tra governanti e governati) avrebbero dovuto costituire qualcosa di analogo ai cantoni svizzeri, modello di autogoverno. Egli ricordava come nella Confederazione fosse normale che un uomo politico cominciasse la sua carriera dal cantone, per poi giungere al parlamento e, quindi, al consiglio federale. “Tutti questi consessi ed i 25 cantoni e mezzi cantoni e la Confederazione hanno così numerosissimi legislatori e centinaia di ministri, grossi e piccoli, tutti eletti, ognuno dei quali attende alla cosa propria, senza vedersi mai tra i piedi il prefetto”. Ciò, ammetteva Einaudi, poteva avere dei costi, ma costituiva il miglior vantaggio, perchè scuola di democrazia. Lasciamogli la parola: “Così si forma una classe politica numerosa, scelta per via di vagli ripetuti. Non è certo che il vaglio funzioni sempre a perfezione; ma, prima di arrivare ad essere consigliere federale o nazionale in Svizzera, o di essere senatore o rappresentante nel congresso nord-americano, bisogna essersi fatti conoscere per cariche coperte nei cantoni o negli stati ed essersi guadagnata una qualche fama di esperto ed onesto amministratore. La classe politica non si forma da sé, né è creata dal fiat di un’elezione generale. Ma si costituisce lentamente dal basso; per scelta fatta da gente che conosce personalmente le persone alle quali delega l’amministrazione delle cose locali piccole e poi, via via, quelle cose nazionali più grosse”. Sono parole di palpitante attualità, in un paese che non ha trovato di meglio che affidarsi ad un “governo tecnico”.
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