“Vi racconto i massacri della mia Siria”
Un ragazzo, rifugiato politico a Varese, segue con preoccupazione le notizie provenienti dal suo paese. "L’unica possibilità è che ci sia un fermo intervento della comunità internazionale"
Anche a Varese arrivano e partono centinaia di rifugiati politici. Si tratta di uomini e donne che corrono il rischio di essere perseguitate o discriminate nel proprio paese. Ognuno di loro cerca una nuova vita e ognuno di loro ha una storia da raccontare.
Un ragazzo in particolare ha deciso di raccontarci la storia del suo paese, una vicenda lontana per la nostra opinione pubblica, ma quanto mai di drammatica attualità. Lui è quasi trentenne, vive a Varese e il suo nome non può renderlo pubblico perché è siriano, «un paese dove la verità viene punita e si ritorce contro amici e famigliari».
Chi racconta ha subito delle perdite e ha molti amici e parenti passati dalle carceri siriane, «non esiste famiglia che non abbia conosciuto il carcere in Siria». L’episodio più terribile lo ha vissuto con la perdita di uno zio: «Ci avevano detto che era morto in un incidente e quando la mia famiglia è andata al riconoscimento del cadavere lo hanno trovato crivellato di colpi di fucile».
La storia di questo ragazzo e del suo paese è fatta di migliaia di morti e di 400 bambini uccisi negli ultimi mesi. Si intreccia con l’atroce cronaca di questi giorni, la cronaca di una Siria macchiata del sangue della repressione dopo le proteste dei suoi cittadini. Lui è informato su quanto sta accadendo, è in contatto con molti amici e famigliari che non vede da quando ha lasciato il paese: prima per andare a studiare medicina in Ucraina e poi per rifugiarsi in Italia. «Ho vissuto per 7-8 anni ad Aleppo, nel nord della Siria, in quella che è considerata la capitale economica del paese. Lì ho studiato fino alle scuole superiori, poi sono andato in Ucraina dove ho vissuto per 11 e mi sono laureato. Adesso da due anni mi trovo in Italia».
La situazione del suo paese è molto frammentata ed è molto difficile comporre un quadro della situazione perché le informazioni viaggiano con difficoltà: «Quello che sta succedendo adesso interessa le città di Homs, Daraa, Hama e Idleb situate al nord della Siria e in provincia di Damasco. In questi luoghi la situazione, soprattutto ad Homs, assomiglia alla guerra civile, perché ci sono tanti disertori che hanno tenuto le armi e fanno al guerra contro il governo».
Le nuove sommosse sono iniziate il 15 marzo del 2011. «Quel giorno c’è stata una grande manifestazione a Damasco e a Dara. Era successo che alcuni ragazzini a Daraa avevano scritto “libertà” e frasi contro il regime sui muri. Il Governo li ha arrestati, e i loro genitori, parenti e amici hanno organizzato le proteste».
Le proteste sono cominciate dalle periferie dei grandi centri abitati, in contesti di estrema povertà, «la rabbia della gente è dovuta a tante motivazioni diverse che si sono coagulate in un unico sentimento di insofferenza. In Siria la vita e le attività delle persone dipendono dai contatti che si hanno con il paese e lo stato: se fai il commerciante devi avere contatti con stato e polizia, per avere un lavoro, studiare all’università o fare tante altre cose devi essere iscritto al partito unico del regime. La gente sa che la politica è una cosa che non si può toccare, della quale non si deve parlare, e ognuno ha impresso nella memoria il massacro degli anni ’80. Inoltre c’è un opprimente clima di polizia: io, siriano, sia se abito in Siria o all’estero, ho paura di parlare con altri siriani. Sono cresciuto tra spie e infiltrati che mandano informazioni allo stato».
Il Governo in Siria si regge su un partito solo. «Il partito unico governa il paese dal ’63. Dal ‘70 è arrivato il padre dell’attuale presidente. Quando è morto nel 2000 poi è arrivato il figlio Bashar al-Assad. Il gruppo religioso del presidente, gli Alawiti, e tutti i suoi parenti sono stati introdotti nei ruoli chiave dello stato e delle forze armate, sebbene in realtà questo gruppo religioso in Siria sia una minoranza, circal’11% dei siriani. Dal 70 fino ad adesso la maggioranza, sunnita, è stata discriminata: se non collabori con il governo non riesci a vivere. Da qui le proteste, che però sono tutt’altro che fondate su motivi religiosi. Sono cominciate nelle periferie e nei villaggi e la gente che ha iniziato a protestare era la gente semplice e più povera che ha mischiato tanti motivi: economia, lavoro, discriminazioni, persecuzioni».
«Il governo ha provato subito a bloccare le rivolte attraverso bande di civili che supportano i soldati e ricevono soldi e armamenti. Quando hanno visto che non riuscivano a bloccare le proteste hanno iniziato a mandare l’esercito. Poi sono arrivati i bombardamenti e il fuoco sui civili. Dopo questa reazione del Governo i protestanti hanno capito che se fermano le proteste o se cade il silenzio sulla vicenda finisce male. I protestanti moriranno o finiranno in prigione. Loro sanno che devono andare avanti».
Attualmente la resistenza alle violenze del governo si muove su due versanti, «all’inizio l’opposizione siriana ha fatto più di un incontro con i partiti all’estero e con i partiti di opposizione. Hanno cercato di creare un comitato che possa presentarsi a livello mondiale come opposizione unica dei siriani, ma ovviamente sono intervenute le polizie segrete, e l’esercito. Il presidente di questo comitato si trova all’estero e sta cercando l’aiuto dell’opinione pubblica internazionale. All’interno del paese invece si è formato un esercito siriano libero che prosegue la battaglia contro il regime e la difesa dei cittadini che protestano».
«L’unica possibilità per il mio paese – conclude il ragazzo – è che ci sia un fermo intervento della comunità internazionale, senza il veto di Russia e Cina. Serve che si illumini un riflettore sulle proteste perché ossa accadere quel che è successo con la primavera araba degli altri paesi. È l’unico modo per fermare le violenze».
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