Via Pacinotti e la fabbrica dei treni
Nel 1905 gli operai delle Officine ferroviarie furono i primi residenti del rione Madonna in Campagna: oggi la zona è in parte degradata, quasi un confine tra la provincia tranquilla e la metropoli. Ma tra i muri degli antichi capannoni sembrano risuonare ancora le voci di chi ci ha lavorato e vissuto
La settima puntata di "Cento metri di città"
In quei capannoni venivano messi a nuovo locomotori e motrici, ma intorno intanto nasceva anche un quartiere. Dal 1905 al 1997 via Pacinotti fu sede delle Officine delle Ferrovie dello Stato, gli operai delle FS furono i primi abitanti del rione di Madonna in Campagna, destinato a diventare negli anni Trenta-Quaranta, da zona ancora agricola, un quartiere vero e proprio. Oggi questo punto della città sembra sospeso tra la tranquilla vita di provincia e l’abbandono delle aree industriali, uno scenario comune alle periferie della metropoli.
«Da bambina – ricorda Oriana, figlia di un operaio delle officine – andavo a portare a mio papà la "schiscetta" a mezzogiorno. Poi alle 17,30 gli andavo incontro all’uscita, abitando lì vicino. E ancora ricordo l’odore forte del ferro che aveva addosso». Tra la "fabbrica dei treni" e il quartiere di Madonna in Campagna esisteva un rapporto strettissimo, di vicinanza fisica. All’inizio molti degli operai abitavano nelle vecchie case – delle mezze cascine – strette tra le officine e viale Milano: qui il 21 marzo del 1945, a guerra quasi finita, un bombardamento alleato fece otto morti tra operai e residenti. Per fortuna i racconti non sono però tutti drammatici: Andrea Calligaro ci viveva, dentro nel complesso delle officine, nella palazzina dell’ex dormitorio dei macchinisti (in fondo a via Pacinotti, foto in bianco e nero a sinistra) che divenne poi alloggio per gli operai. «Mio papà in realtà lavorò poco a Gallarate, perché poi scelse di lavorare a Milano in un’officina più grande: aveva una bici con cui da casa raggiungeva la stazione pedalando accanto al binario di servizio». La famiglia Calligaro continuò a vivere nel fabbricone di Gallarate – sempre curatissimo, con tanto di giardinetti – fino alla pensione del padre: «Durante il giorno circolavano nello scalo diversi vagoni, locomotori e motrici per lo smistamento all’interno dello scalo, e più in là passavano i treni di linea con binari un po’ più alti e robusti. Ma nello scalo i treni erano più lenti e comunque di sera e nei giorni festivi non circolavano e mi davano la possibilità di giocare in mezzo ai binari: giocavamo a nascondino sulle vecchie carrozze passeggeri parcheggiate, invitando qualche amico o vicino. Oppure esploravamo eventuali convogli merci parcheggiati» (nella foto, a inizio anni Settanta, su un locomotore E428).
In origine Gallarate fu scelta per la manutenzione dei treni "a terza rotaia" (in cui cioè la corrente elettrica è portata non dal filo aereo, ma da una rotaia a terra), un sistema che era in uso solo sulla linea Milano-Varese, all’avanguardia per l’epoca, anche se pericoloso per i rischi della linea a 600 volt a livello del suolo, parallela ai binari. Nei primissimi anni della ferrovia elettrica, le piccolissime officine erano allestite accanto alla vecchia Stazione Centrale di Milano (che sorgeva al posto dell’attuale Piazza della Repubblica), ma lo spazio dopo poco risultò insufficiente e così si edificò il nuovo complesso a Gallarate, che fu poi ampliato e rinnovato negli anni Trenta e nel dopoguerra (nella foto a destra: il padiglione storico del 1905). Il legame con l’elettricità – un miracolo a cui oggi siamo abituati – fu sancito persino dall’intitolazione della via ad Antonio Pacinotti, il pisano inventore della dinamo.
Di fianco alla torre dell’acqua del deposito locomotive, nell’altra casa dei ferrovieri, vive invece ancor oggi Giovanni Pirovano, che fu capofficina in via Pacinotti. «Ho iniziato nel 1956 come capotecnico – ricorda – , avevo trent’anni e venivo dal Deposito Locomotive Greco, quello dietro la stazione Centrale di Milano. Quando sono arrivato io c’erano un centinaio di persone che lavoravano a Gallarate». Oltre che curare la manutenzione ordinaria, a Gallarate si fecero veri e proprie costruzioni: nel 1925 per esempio gli operai di via Pacinotti – quasi come degli artigiani – recuperarono telai e alcune parti delle vecchie motrici passeggeri d’inizio secolo e diedero vita alle cinque locomotive tipo E620, che rimasero strane per via del lungo telaio che avevano ereditato. Quando in ferrovia non si buttava via niente… Ma in realtà a Madonna in Campagna si sperimentavano anche i mezzi più moderni: nel 1927 dal cancello delle officine gallaratesi uscì uno dei primi esemplari delle locomotive E626, che divennero poi una delle più diffuse locomotive italiane. Il progetto era talmente buono che molte locomotive di questo tipo esistono ancora oggi, come veicoli storici funzionanti. Pirovano ricorda che quando arrivò a Gallarate nel 1956, le Officine «avevano appena trasformato le Varesine con i pantografi»: fu uno dei grandi lavori fatti a Gallarate, quando le motrici alimentate con la (pericolosa) terza rotaia a 600 volt furono modificate per l’alimentazione a 3000 volt con filo della corrente. Gli operai di Gallarate modificarono i motori e aggiunsero i "pantografi", cioè i contatti che trasmettono la corrente dal filo al treno. Così le E623,"le Varesine", andarono avanti, sempre più vecchiotte, fino agli anni Ottanta: alla fine ne rimase solo una che faceva la "chioccia", che accompagnava nelle corse prova le motrici moderne appena revisionate (foto a sinistra, del 1991, tratta dal sito photorail.com). «Negli anni Ottanta eravamo ancora più di cento, eravamo veri compagni» dice Antonio Ventimiglia, che è stato anche militante Cgil. «Mi ricordo la prima volta che ho visto la tornitura di una ruota di locomotiva» dice il figlio Ivano Ventimiglia, oggi consigliere comunale Pd. «Pensate allo stupore di un bambino per quella ruota gigantesca che si muoveva piano piano, ai miei occhi grande quasi come l’operaio che lavorava al tornio!». Poi negli anni Novanta le FS decisero di ridurre il numero di officine in giro per l’Italia, affidando anche molte fasi di lavorazione ad aziende esterne, secondo il dogma che vuole l’esternalizzazione come modo per risparmiare, anche a discapito delle professionalità interne. La fine arrivò quindici anni fa, per la precisione il 29 gennaio del 1997.
Da allora, le officine sono rimaste vuote, senza vita. Entrando dai varchi nei muri di cinta – fino a un paio d’anni fa – ci si poteva ancora aggirare tra i capannoni deserti o negli spogliatoi, dove erano rimasti solo gli armadietti e le docce che hanno visto cambiarsi e lavarsi, per 90 anni, generazioni di orgogliosi operai FS. Nel vecchio dormitorio dove vivevano le famiglie dei ferrovieri hanno vissuto poi, per un periodo, altri lavoratori venuti da lontano, extracomunitari muratori e operai in nero, forse anche bassa manovalanza dello spaccio. Un giorno sono scappati e su un davanzale è rimasto a lungo un paio di povere scarpe da lavoro, bruciate dal sole e dalla pioggia. Poi nel 2010 il collettivo "Ultimi mohicani" tentò di farne un centro sociale, la polizia intervenne e subito dopo porte e finestre del primo piano furono definitivamente murate, per evitare intrusioni. Ma il tempo e il degrado dei materiali non si fermano certo davanti alle porte chiuse con i mattoni e così nell’estate del 2011 una parte dell’edificio originale del 1905 è crollata (nella foto a destra). Ivano Ventimiglia, il figlio del ferroviere, non rinuncia però ad un sogno: «Sarebbe bello poterne fare un museo di treni vivo, come hanno fatto con Volandia a Vizzola».
Intorno alle Officine oggi rimane un quartiere di laboratori artigiani, vecchie case a ballatoio, villette: un pezzo di tranquilla provincia. Ma l’inizio di via Pacinotti, verso il centro città, è già qualcosa di diverso: uno spazio in gran parte abbandonato senza uso, un angolo quasi da periferia urbana di grande città. Ci sono cumuli di terra, reti metalliche e di cantiere e in mezzo il non-luogo sotto al Ponte della Mornera. Per più di un anno sotto le travate in cemento aveva trovato posto anche un piccolo campo di disperati, che vivevano sui materassi con le loro povere cose, esposti alle intemperie e alle asprezze della vita di strada che non risparmia la violenza dei più poveri verso i più poveri. All’inizio dell’inverno 2011 sono stati sgomberati dalla polizia, con tanto di denuncia delle Ferrovie per l’occupazione abusiva del desolato riquadro di terra polverosa. «Non davano fastidio, però non era certo la soluzione ideale neppure per loro» dice Massimo, che vive a due passi dal viadotto della Mornera, alto più delle case, opprimente. Per chi abita qui è il ponte ad essere un problema: «Abbiamo chiesto le barriere laterali. Contro il rumore, ma anche contro l’inquinamento e le polveri che dal ponte "scendono" sulle nostre case». In Comune si è vagheggiata l’idea di rilanciare la zona con un impianto sportivo polivalente, che abbia il suo cuore nella pista da skateboard chiesta dai giovani skaters gallaratesi. Al capo opposto della via c’è anche il terreno del vecchio magazzino comunale che negli ultimi mesi è diventato anche spazio pubblico e ha ospitato – senza contraddizioni – il Ramadan della comunità islamica e la festa del rione con il palio. Ancora una volta: un po’ città multiculturale, un po’ paese. Chissà che il futuro di questa strada di periferia non parta anche da qui e consenta di salvare la memoria della "fabbrica dei treni", un pezzo del romanzo industriale gallaratese che sembra destinato a svanire.
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