Quel silenzio miracoloso che salvò il piccolo Joel
Joel Diena, il bambino ebreo salvato da alcuni cittadini tradatesi durante l'occupazione nazista, è intervenuto alla consegna del riconoscimento di «Giusto tra le nazioni» che lo Yad Vashem ha attribuito alla famiglia Lomazzi
Quando sarà morto l’ultimo testimone diretto della Shoah che ne sarà della memoria di ciò che è stato? In Israele alcuni giovani ebrei si sono fatti tatuare lo stesso numero di matricola che avevano sul braccio i propri familiari al momento dell’ingresso nel campo di sterminio nazista di Auschwitz. La memoria è dunque anche una questione fisica, legata all’esperienza dei sensi.
Durante la consegna del riconoscimento di «Giusto tra le nazioni» (l’onorificenza attribuita dal memoriale Yad Vashem di Israele) alla memoria di Erminio e Ada Lomazzi, Davide Lomazzi e Giovanna Galparoli , Carlo Galbiati e Giuseppina Lomazzi, i tradatesi che durante l’occupazione nazista accudirono e diedero protezione al piccolo ebreo Joel Diena e ai suoi genitori, il tema di come ricordare la shoah e come attualizzare quel ricordo è stato il filo che ha unito i vari interventi dei relatori.
«Non vorrei sconvolgere questi ragazzi con il mio racconto» ha esordito Joel Diena, rivolgendosi agli studenti del liceo scientifico Marie Curie di Tradate. Per qualche ora quell’uomo dallo sguardo sereno, l’italiano quasi perfetto e la kippa nera in testa è ritornato il piccolo ebreo Joel, protetto dagli amici e da una comunità di brave persone che pensavano fosse normale aiutare un bambino e la sua mamma braccati dai nazifascisti. È vero, il bene può essere banale quanto il male. Non per Joel che invece ritiene miracoloso il comportamento di tutte quelle persone. «Quando la maestra fece fare un tema chiedendo ai miei compagni di classe se conoscevano bambini ebrei, nessuno scrisse il mio nome». Un silenzio che lo salvò dalla delazione.
In prima fila ad ascoltare c’è Peppino Pellegatta anche lui sulla via degli 80 anni. A poca distanza c’è Pietro Lomazzi che con Joel giocava a bocce e a carte nella trattoria del padre Erminio. Hanno tutti e tre i capelli bianchi ma continuano a guardarsi con la complicità tipica dei bambini. Peppino e Pietro chiamano ancora l’amico col nomignolo affettuoso di allora, «Nello». Non hanno dimenticato le parole violente pronunciate dalla maestra nei confronti degli ebrei. Peppino le ripete a memoria per ribadire che quella vergogna non va dimenticata. Sono gli amici ritrovati dopo una vita, quei bambini che fecero un patto silenzioso per la vita. «La maestra cancellò una frase del tema di Peppino – racconta Diena – perché troppo buona, sostituendola con le parole “strozzini” e “usurai” riferite agli ebrei, termini di cui non conoscevano nemmeno il significato».
«Se salvi una vita salvi il mondo intero» è un detto del Talmud. La storia di Joel sembra confermarlo: dopo la guerra, si è trasferito in Canada dove si è sposato mettendo al mondo cinque figli che a loro volta gli hanno regalato venticinque nipoti. «Il ventiseiesimo è in arrivo» dice con un certo orgoglio indicando uno dei nipoti seduto davanti a lui.
Il miracolo che ha accompagnato l’infanzia di Joel, purtroppo, per molti altri ebrei d’Europa non si è ripetuto. Almeno non per Giuseppe Laras rabbino capo di Milano che ha partecipato alla cerimonia del liceo Curie. «Concordo su tutto con Joel – ha detto Laras – tranne che su una cosa: ritengo che bisogna turbare i giovani, perché si tende a dimenticare la storia scomoda e a ricordare solo quella gloriosa. Non bisogna avere paura, perché i giovani sono molto più maturi di quello che noi pensiamo».
Il 2 ottobre del 1944 Laras viene catturato nella casa di Torino dove vive con la giovane madre, non ancora trentenne, e la nonna di 57 anni. «Si sono presentate due persone – ha proseguito il rabbino- per prelevarci, avevano avuto i nostri nomi su delazione. La vita di un ebreo valeva 5 mila lire e mia madre che aveva messo via qualche soldo per l’emergenza della guerra ne offrì ventimila per salvarmi. Lei e mia nonna furono portate prima in carcere e da lì al campo di concentramento di Bolzano che aveva sostituito Fossoli. Infine, il 14 dicembre del 1944 furono traferite, con l’ultimo treno che attraversò il passo del Brennero, al campo di concentramento di Ravensbrük, conosciuto come l’inferno delle donne».
Per la prima volta, questa primavera, Laras è andato con la figlia e la nipote in visita a Ravensbrük dove ha trovato il registro dei prigionieri con le date di ingresso e di morte. «Quando siamo venuti via – ha commentato Laras – dentro di me ho concluso che avevo fatto bene ad andare, perché mi sembrava di avere dato un contributo alla memoria di mia madre e di avere assolto a un dovere». Il dovere di ricordare.
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