Truffa dei cartellino, la verità di uno dei dipendenti comunali

Marino Andorno, uno dei condannati in primo grado per la "truffa del cartellino" a Cardano, scrive a Varesenews. «Dietro a quella lista di nomi di ufficiali, c’è un universo umano incredibile»

Marino Andorno, uno dei dipendenti comunali condannati in primo grado per la "truffa del cartellino" a Cardano al Campo, scrive a Varesenews. «Adesso la palla passerà ad altri giudici nella fase doverosa e, certamente, chiarificatrice dell’appello – scrive -, augurandomi che si possa finalmente ristabilire la giusta dimensione ad una vicenda aperta oltre tre anni fa, ma che ha dibattuto fatti di oltre sette anni addietro (!), inutilmente penosa per tutti».

Dopo la sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Busto Arsizio il 16 ottobre, ho, in primo luogo, il dovere e, secondariamente, ne sento la necessità, di spiegare le cose senza far perdere l’orizzonte a chi voglia prestare quel poco di attenzione “seria” ad una vicenda che – per certi aspetti – ha del grottesco.
La funzione ricoperta sino all’ottobre 2006 ed il rispetto che debbo ai cittadini, agli amministratori, al personale di polizia locale non solo del Comune di Cardano al Campo ma anche di quei Comuni nei quali ebbi la ventura di prestare la mia opera, alle numerose persone delle più svariate categorie professionali o che, semplicemente, conosco e stimo, mi impone una riflessione.
Ho lavorato e lavoro in un territorio ricco e vario, provenendo da precedente attività di comando in altro territorio con caratteristiche simili e diverse nel contempo. Il territorio Alto Milanese o Basso Varesino, come lo si voglia identificare e le sue persone, uniti al tipo di attività professionale, hanno rappresentato e rappresentano tutt’oggi un vero e proprio laboratorio aperto di esperienze professionali, sì, ma umane soprattutto.
Dietro a quella lista di nomi di ufficiali, agenti od ex e di dipendenti comunali interessati dalla sentenza (e non parlo di me perché poco rappresento) c’è un universo umano incredibile. Professionisti che hanno dovuto affrontare le mille difficoltà quotidiane del loro servizio (dalle più semplici, oserei dire, umili e visibili alla collettività: servizio alle scuole, notificazioni etc., a quelle più complesse e delicate) ma – e qui voglio essere incisivo – anche e soprattutto le difficoltà che e le prove che io stesso richiedevo a uomini e donne indifferentemente.
Nell’elenco sono comprese anche le due (tre a dir il vero) persone che – devo dire a causa di un’informazione spesso cinica e commerciale – sono stati indicati come accusatori. Alla luce di quanto deciso (in primo grado e lo sottolineo) mi paiono più come vittime dello stesso sistema che qualcuno sostiene avrebbero messo in moto autonomamente.
Uomini e donne a cui io, e non solo gli amministratori succedutisi nel tempo, ho chiesto ed imposto sacrifici ed esposto a pericoli (nel limite della professionalità) ed ai quali loro stessi spesso si sono esposti. Una lista lunga di eventi ed azioni, come lo dimostrano le quasi se non ormai oltre mille (proprio di numero statistico) resoconti di interventi finiti sul tavolo dei magistrati, agli atti del comando, alle autorità preposte e via dicendo. Lista di cui lo stesso collegio giudicante ha potuto verificarne un saggio relativamente al solo anno interessante i fatti processuali.
Sacrificio che è consistito, il più delle volte, anche nell’effettuare ore di lavoro in più senza pretendere, spesso per dignità professionale, alcun compenso. Attività che, come nel contrasto alla prostituzione su strada a fine anni ’90, hanno impegnato gli agenti femmine del comando a servizi in borghese con i rischi relativi. Servizi in borghese che hanno impegnato, invece, il personale maschile in occasione di rintracci ed arresti di latitanti e sequestri di armi.
A tutti loro dico grazie.
Grazie anche a quanti fra amministratori o ex amministratori di varie correnti hanno creduto e credono in questa gente, dimostrandolo in vario modo.
Quanto a me, chi mi conosce, non ha bisogno di altre spiegazioni.
Non è certamente compito del giudice valutare o considerare queste cose, ma è fondamentale che nelle aule di giustizia la “politica” non riesca mai a costituire un argomento, parafrasando il celebre detto attribuito al giudice che processò un leader radicale inglese nel XVIII secolo.
Anche perché l’obiettivo non devono mai essere le persone, ma i fatti.
Un infinito ringraziamento al collegio dei difensori, perché hanno dimostrato, prima fra tutte le qualità, il lato umano e sono “cresciuti” con noi lungo il tempo del processo, credendo sempre più nell’innocenza dei loro assistiti e rendendone appieno il pathos nelle loro arringhe.
Adesso la palla passerà ad altri giudici nella fase doverosa e, certamente, chiarificatrice dell’appello, augurandomi che si possa finalmente ristabilire la giusta dimensione ad una vicenda aperta oltre tre anni fa, ma che ha dibattuto fatti di oltre sette anni addietro (!), inutilmente penosa per tutti.
Mi ricordo che ormai vent’anni fa, giovane ufficiale, durante un’udienza, il presidente del collegio giudicante ( uomo molto autorevole ) – di fronte ad una signora imbarazzata nel testimoniare perché non abituata alle aule giudiziarie -disse: “Signora, la capisco. Mi creda, il processo è già di per se stesso una condanna”.

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Pubblicato il 22 Ottobre 2012
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