La morte del picciotto D’Aleo, parlano i super pentiti
Per il processo a Emanuele Italiano, accusato dell'omicidio D'Aleo, si confrontano le versioni di Rosario Vizzini e Fabio Nicastro, entrambi già condannati per quell'uccisione. La ricostruzione di uno spaccato di mafia
«Bastava fare uno più uno per capire che D’Aleo l’avevamo ammazzato noi o perlomeno capire che io sapevo che fine avesse fatto, visto che s’accompagnava sempre con me. Era il mio uomo di fiducia». Queste le parole pronunciate in aula da Fabio Nicastro (foto a sin.), ex-boss ed ex-uomo d’onore della cosca Emanuello durante la sua testimonianza come pentito al processo che vede imputato Emanuele Italiano per l’omicidio di Salvatore D’Aleo, il picciotto barbaramente ucciso il 2 ottobre del 2008 in un bosco di Vizzola Ticino e lì sotterrato. Nonostante la frase di Nicastro solo tre anni e mezzo dopo, era l’aprile del 2011, la Procura della Repubblica di Milano riesce ad inchiodare i responsabili dell’assassinio e a scoprire i poveri resti del cadavere dopo che l’altro superteste della giornata di oggi, Rosario Vizzini, decise di pentirsi e collaborare facendolo ritrovare ai piedi di una scarpata nei pressi del fiume Ticino.
I due testi dell’accusa, rei confessi, sono già stati condannati per l’omicidio di D’Aleo mentre Emanuele Italiano si è sempre detto estraneo al compimento del delitto. Italiano era in aula anche questa mattina mentre i due pentiti raccontavano la loro versione dei fatti davanti ai giudici della corte d’Assise presieduta dal giudice Adet Toni Novik. In aula erano presenti anche la mamma di Salvatore D’Aleo, Crocifissa, e due delle sorelle della vittima.
LA CARRIERA CRIMINALE – Il primo a raccontare è stato Rosario Vizzini, in videocollegamento dal carcere dov’è rinchiuso, ripreso di spalle dalla telecamera. La sua storia parte da lontano quando, nel 1987 ha messo piede per la prima volta a Busto Arsizio «una città che ho amato e che amo tutt’ora – dirà poi durante l’udienza – e alla quale chiedo scusa per il male che ho fatto». Nel ’94 diventa uomo d’onore con l’imprimatur di Crocifisso (Gino) Rinzivillo, Calogero Rinaldi e Giuseppe (Piddu) Madonia in una riunione a Roma. Dal 2001 diventa reggente della cosca gelese a Busto Arsizio e dal 2003 mette in piedi il gruppo che ha poi tenuto sotto scacco decine di imprenditori (in buona parte gelesi) che operavano a Busto: «Li chiamai uno per uno spiegando chi eravamo e cosa volevamo ma quando vedemmo che questi non volevano pagare abbiamo cominciato ad incendiare mezzi, bruciare cantieri, sedi di aziende». Dopo poco arrivano anche i pagamenti. Vizzini, seguendo le domande del pubblico ministero Giovanni Narbone, ricostruisce anche com’è maturata la decisione di uccidere D’Aleo: «Lui era l’uomo di Fabio Nicastro ma io non lo volevo nemmeno incontrare – ha detto Vizzini – avevo detto a Fabio che per qualsiasi cosa avesse combinato D’Aleo l’avrei considerato il responsabile e che quindi doveva tenerlo sott’occhio. Si lamentava di noi, una volta si presentò a casa di Salvatore Fiorito pochi mesi prima della condanna a morte, lamentandosi di me e di Nicastro. Questo me lo riferì Fiorito».
I CONTRASTI CON D’ALEO – Vizzini definisce D’Aleo una persona pericolosa per l’organizzazione, uno inaffidabile che avrebbe creato problemi e cita un episodio del 2004 quando – secondo la ricostruzione di Vizzini – era andato a fare un’estorsione per i fatti suoi ad un imprenditore di Busto. Questi, dunque, si rivolse (attraverso alcune amicizie) a Vizzini per lamentarsi del comportamento di D’Aleo e per chiedere un suo intervento. Infine a far maturare la decisione di ucciderlo fu la minaccia che Vizzini riporta nella riunione prima delle vacanze estive del 2008 quando D’Aleo «minacciò di distruggere le nostre case se fossimo partiti per le vacanze». Vizzini racconta anche di averlo tenuto buono procurandogli, attraverso un’estorsione, 1000 euro per mandarlo in vacanza dalla famiglia in Calabria. Vizzini parla di una nuova riunione a settembre per definire l’omicidio e ottiene – secondo il suo racconto – l’assenso degli altri due uomini d’onore (Fabio Nicastro ed Emanuele Italiano) oltre all’appoggio di Salvatore Fiorito che, pur non essendo ufficialmente affiliato, era considerato l’anziano del gruppo e molto amico di Antonio Rinzivillo. All’esecuzione Vizzini non partecipa ma racconta di quello che gli avrebbe riferito Italiano: «Mi disse che gli spararono un colpo alla testa ciascuno e che Italiano gli aveva anche tagliato la gola per essere certo che non sopravvivesse – racconta – poi lo spogliarono e lo lasciarono lì. La sera stesse venne da me Nicastro verso le 11 di sera per dirmi che l’avevano ucciso e che bisognava sotterrare il corpo e io andai con lui, recuperammo il sacco con la pala e il piccone che avevo fatto custodire a Giuseppe Giannone e riprendemmo Italiano che ci aspettava nei pressi del bar Ugo per poi tornare in quel posto». Lì sotterrarono D’Aleo in malo modo, si disfarono degli abiti di D’Aleo il giorno dopo e non ne parlarono più.
LE INCONGRUENZE – Il racconto di Nicastro differisce in alcune parti da quello di Vizzini in quanto sosteneva che lui era contrario all’omicidio di Salvatore ma che avrebbe dovuto assecondare la volontà di Vizzini in quanto così detta il codice di comportamento dell’uomo d’onore: «Per aiutare un fratello (un altro uomo d’onore) devi essere pronto a lasciare anche tua moglie incinta in un letto di sangue mentre partorisce – ha raccontato Nicastro – su questo mi fecero giurare quando entrai in cosa nostra». Quindi se Vizzini aveva deciso la morte di un picciotto che non era un fratello, Nicastro non poteva opporsi. L’ex-boss racconta, però, che fu Italiano con Vizzini ad architettare l’omicidio nei giorni precedenti: «Loro si occuparono di trovare il posto, Vizzini pensò a procurare e tenere pronte pala e piccone – racconta – poi successe che il 2 ottobre ero al bar con Salvatore e Italiano ci chiese di accompagnarlo senza dirci nient’altro perchè così si usa nella mafia. Meno sai e meno puoi raccontare se succede qualcosa».
Nella prossima udienza parleranno i tre consulenti che hanno lavorato nel recupero del corpo di D’Aleo anche per chiarire anche un altro aspetto emerso dal dibattimento: dov’è finita la testa del povero Salvatore D’Aleo?
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