In viaggio nel “cuore oscuro” dell’Europa
Srebrenica è il punto d'arrivo del "viaggio della memoria" dei diciottenni di Cunardo, Cugliate Fabiasco e Lavena Ponte Tresa, passato da Sarajevo, città dell'assedio. La cronaca
Il cuore oscuro dell’Europa sta in una conca tra le montagne della Bosnia orientale, a Srebrenica: qui riposano le 8mila vittime della strage dei bosniaci musulmani massacrati dai paramilitari serbo-bosniaci, nel 1995. Srebrenica è il punto d’arrivo del "viaggio della memoria" partito da Cunardo, Cugliate Fabiasco e Lavena Ponte Tresa, passato da Sarajevo, città dell’assedio.
È un giorno plumbeo. Prati fradici di acqua gelida, montagne spoglie tutt’intorno alla conca che ha al centro il memoriale della strage del 1995: l’ultima tappa della pulizia etnica in Bosnia, tollerata e a tratti implicitamente sostenuta dagli Stati Europei. All’inizio di luglio del ’95 (quarta estate di guerra in Bosnia) i nazionalisti serbobosniaci circondarono la cittadina e si fecero consegnare dai militari olandesi dell’Onu i civili che si erano rifugiati a Srebrenica, dichiarata "Safe area". I paramilitari serbi separarono donne e bambini dai maschi validi: nei due giorni successivi uccisero migliaia di ragazzi e uomini, tutti quelli dai 12 ai 77 anni. Ottomila morti gettati nelle fosse comuni, recuperati nell’arco di anni (oltre seimila i corpi sepolti ad oggi).
Il memoriale è a Potocari, una serie di capannoni di cemento, una ex fabbrica di batterie che nel corso della guerra era stata trasformata in caserma dei soldati Onu. Arrivare qui da Sarajevo richiede tre ore, su strade in mezzo ai monti della Republika Serpska, "la metà serba" della Bosnia. Scende la neve, da un marciapiede un anziano guarda il pullman diretto a Srebrenica e alza tre dita, il gesto dei nazionalisti serbi. Poi si arriva al memoriale: i ragazzi venuti da Varese superano le reti di metallo, entrano nei capannoni. Pochi minuti dopo su uno schermo ricompaiono gli stessi luoghi, dietro alle reti metalliche ci sono i volti terrorizzati dei bosniaci musulmani messi sotto tiro dai paramilitari. «Mi ha fatto impressione quando ho visto le immagini a colori», dice all’uscita una ragazzina. Nel 1995 i neodiciottenni varesini avevano un anno, ma la distanza minima da quella guerra la percepiscono anche loro, come gli adulti.
Lasciato il cimitero e le lapidi bianche tutte uguali, da Potocari si sale poi alla cittadina di Srebrenica. Sotto la pioggia non si muove nessuno, tra case e palazzi si fatica a cogliere la vita, dopo che la pulizia etnica ha cambiato completamente la composizione sociale ed etnica degli abitanti. In cima alla strada che attraversa la città ci sono un paio di caffè e taverne bosniaco-musulmane, una piccola moschea sopravvissuta alla furia nazionalista e fondamentalista che ha spazzato via migliaia di vite ma anche centinaia di luoghi di culto musulmani in tutta la Bosnia. Ci sono cani randagi in strada, qualche vecchia auto Zastava spetazzante.
È qui che si sente tutta la solitudine di questi luoghi: per quattro anni ripresi dalle tv e finiti in prima pagina sui giornali, oggi dimenticati. Eppure è qui che l’Europa democratica, tronfia della sconfitta del comunismo, ubriaca di retorica sulla futura pace promessa a tutti, ha dato la peggior prova di sé, permettendo il genocidio dei musulmani di Bosnia, avallando la divisione etnica di un intero Stato, negando l’idea della convivenza pacifica rappresentato dalle città come Sarajevo, trasformando l’ex Jugoslavia in un gigantesco mercato da conquistare ad ogni costo, da spartire tra le potenze europee. Vent’anni dopo le città sono in gran parte ricostruite, il dolore rimane nel cuore di molti, le nuove frontiere tagliano le campagne e le montagne. Dopo il fallimento degli anni Novanta, i cittadini sapranno costruire una Europa diversa?
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