Non dimentichiamo Nikolajewka
Non ci sono più grandi guerre, ma nel mondo si continua a sparare e a uccidere e allora risollevare a ogni occasione il vessillo di pace che tanti reduci di Russia ci hanno voluto consegnare è un dovere
Nelson Cenci se ne è andato nel settembre scorso, aveva 93 anni, grande medico, fine scrittore e poeta, uno degli ultimi alpini sopravvissuti alla grande tragedia della ritirata di Russia, culminata nella battaglia di Nikolajewka che costò la vita a migliaia di nostre Penne Nere. Cenci, amico di Varese che lo vide a lungo primario al “Circolo”, in questi giorni tristissimi del ricordo di tante giovani vite spezzate non apparirà in televisione, quella di Stato; non chiederà ai giornali di aiutarlo a onorare il sacrificio della “meglio gioventù” finita sotto terra per la follia dei dittatori.
Nelson non c’è più, i giorni di Nikolajewka nel calendario sono anche quelli della memoria di uno dei più grandi crimini della storia dell’umanità: la Shoa, milioni di morti, l’olocausto degli ebrei perseguitati dai nazisti. Due dimensioni ben diverse degli eventi, ma la storia degli alpini che ruppero l’accerchiamento dei russi a Nikolajevka merita essa pure attenzione, soprattutto da parte dei giovani. Possono aiutare moltissimo le ricerche sul web o i libri di Rigoni Stern, Corradi, Bedeschi, dello stesso Cenci. Il ricupero di queste vicende nelle scuole può essere oggetto di una lezione di storia contemporanea che aiuti a demitizzare la guerra in genere e a togliere ogni eventuale dubbio sulle responsabilità del regime fascista, una banda di incapaci, di irresponsabili.
Egisto Corradi, firma leggendaria del “Corriere della Sera”, ufficiale della “Julia”, nel suo “La ritirata di Russia” parla chiaramente di scelte criminali quando valuta l’invio in Russia di divisioni di alpini, lente negli spostamenti, quindi inadatte alla guerra di movimento che veniva combattuta nella steppa. Criminale anche l’armamento: cannoni che facevano il solletico ai carri armati sovietici, mitragliatrici e fucili che non reggevano i terribili “sottozero” dell’inverno russo. Criminale infine la scelta dell’abbigliamento della truppa: dalle divise ai copricapo e agli scarponi nulla era adatto all’inferno bianco dove morirono assiderati o patirono congelamenti migliaia di alpini e fanti.
Non ci sono più grandi guerre, ma nel mondo si continua a sparare e a uccidere e allora risollevare a ogni occasione il vessillo di pace che tanti reduci di Russia ci hanno voluto consegnare è un dovere. Che lo si possa fare a Varese nel ricordo di un testimone come Nelson Cenci è ancora più significativo.
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