E al terzo tentativo, il gigante Egger si arrese

Matteo Della Bordella, 28enne varesino, racconta la conquista della vetta della cima patagonica, per una via ancora insesplorata. «Tre giorni alla base del nostro sogno, poi l'attacco decisivo»

Matteo della Bordella è nato a Varese, il 4 luglio 1984, è cresciuto a Malnate e in poco tempo è riuscito a diventare uno dei più forti arrampicatori del mondo. Ha cominciato a scalare sulla falesia del Campo dei Fiori e da lì sulle difficili pareti del lecchese. Poi è entrato nei leggendari Ragni di Lecco con i quali ha appena concluso la sua ultima e per ora più importante avventura, l’apertura di una nuova via sulla parete Ovest della Torre Egger, cima della Patagonia, che da quel lato aveva respinto tutti i tentativi. Ora Matteo è rientrato in Italia, ecco il suo racconto e le sensazioni ancora "calde" (foto da www.ragnilecco.com).

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Matteo, anzitutto ci racconti come ha iniziato ad arrampicare.
«
Ho cominciato a 12-13 anni con mio papà. Lui da ragazzo arrampicava ma poi ha smesso: un giorno gli ho chiesto io di portarmi, e da li abbiamo ri-iniziato insieme. All’inizio mi sono misurato sulle pareti del Campo dei Fiori o in Valganna, poi la passione è stata sempre più forte, finchè non ho più potuto farne a meno».

Poi la montagna le ha portato via proprio papà Fabio. Come ha reagito dopo la sua morte? E ora, come si approccia alle scalate?
«Per me fu un brutto colpo; sono stato male, ma poi sono riuscito a farmene una ragione. Forse doveva succedere, perché certe cose capitano che tu lo voglia o no; se però devo trovare un aspetto "positivo" di questa brutta esperienza, è sicuramente il fatto che mi ha aperto ancora di più gli occhi, mi ha reso più responsabile, più attento. Mi ha fatto capire ancora meglio quanto io sia piccolo in confronto alla montagna, che sia la ovest dell’Egger o la falesia dietro casa».

Passiamo ad argomenti più belli e attuali; come mai l’Egger?
«Questo progetto è nato tre anni fa, insieme al "Berna", Matteo Bernasconi; volevamo vivere una esperienza speciale aprendo una nuova via in Patagonia. Così un giorno ci siamo trovati a Lecco con i due "Ragni" Mario Conti e Carlo Aldè, grandi esperti di queste montagne, che ci hanno indicato proprio la parete ovest della Torre Egger come l’ultima grande parete, l’ultimo importante baluardo sul quale non correva ancora nessuna via. Così ci siamo detti "perché no? Proviamo!"».

Per portare a termine questa impresa è servita tanta perseveranza. 
«Si, ci sono volute tre spedizioni ma mai abbiamo pensato che fosse un’impresa impossibile o che sarebbe stato meglio lasciar perdere. Anche il primo anno, nonostante la spedizione sia andata relativamente male, ci è servito tantissimo perché abbiamo capito come muoverci su queste grandi montagne dal meteo pazzo, come poter salire la parete nel migliore dei modi, insomma come allenarci. Abbiamo imparato davvero tanto. Così, quando siamo tornati il secondo anno e siamo arrivati a solo un tiro dall’uscita della parete, abbiamo capito quanto l’impresa fosse fattibile; in più avevamo attrezzato buona parte della via, cosa che ci è tornata molto utile. Quest’anno siamo infatti tornati alla base della parete e siamo riusciti a salirla: sono stati momenti indimenticabili, fantastici, duri, ma sicuramente ho provato emozioni uniche».

Non vi siete abbattuti quando il classico maltempo patagonico si è messo a imperversare? Cosa facevate in quei giorni di inattività?
«A dir la verità molto del tempo l’abbiamo trascorso in paese a El-Chalten, quindi bene o male qualcosa da fare lo abbiamo sempre avuto e dunque non è stato un peso eccessivo. Invece, alla base della parete, abbiamo aspettato per una settimana che il bel tempo venisse a trovare anche noi: è in quei momenti che ti viene voglia di mandare all’aria tutto, fare gli zaini e tornare a casa, ma alla fine ci rifletti. Sei li per lei, per la montagna, e anche questo fa parte del gioco: staresti peggio in città che alla base del tuo sogno».

Parliamo ancora della spedizione di quest’anno all’Egger: qual è stato il passaggio più difficile della via?
«Il grosso della via era già attrezzata dall’anno scorso, quindi direi l’ultimo tiro: era su strapiombo e c’era davvero poca possibilità di assicurarsi con protezioni veloci (friend, nut..). Alla fine però sono riuscito a mettere uno spit (un particolare chiodo per ancoraggio in parete ndr) e siamo passati!».

I primi tentativi sono stati fatti insieme a Matteo Bernasconi, quest’anno invece lui ha dovuto abboandonare in anticipo e con lei è rimasto solo il giovanissimo Luca Schiera, alla sua prima esperienza. Ha avvertito maggiori responsabilità?
«In effetti si: Luca è un giovane alpinista molto forte, ma non aveva esperienza in Patagonia e quindi si affidava completamente a me. Ero io a prendere le decisioni, a scegliere se andare o no in parete: non potevo permettermi alcun errore, ancora meno del solito. Lui mi ha dato la sua fiducia e dalle mie decisioni potevano dipendere le nostre vite, ma direi che è andata bene. E anche Luca si è comportato ottimamente».

Ed ora? Vi prenderete un po’ di relax scalando sulle tranquille falesie della nostra provincia, o avete già nuovi progetti sul tavolo?
«Abbiamo già un nuovo progetto, e uso il plurale perché il team dovrebbe essere ancora una volta composto da me, "Berna" e qualche altro Ragno: l’ideale sarebbe essere quattro o cinque. La meta dovrebbe essere il Pakistan dove vorremmo salire una big wall (grande parete di roccia) di una montagna intorno ai 6000 metri. Una specie di Egger con difficoltà elevate, a cui si aggiungerebbe la quota. Ci stiamo organizzando proprio in questi giorni, anche perché siamo un po’ in ritardo sui tempi».

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Pubblicato il 18 Marzo 2013
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