Luigi Ambrosoli, Cattaneo e la frontiera svizzera

Mercoledì 17 aprile alle ore 18 al Salone Estense si terrà la presentazione del libro “Luigi Ambrosoli per la Storia dell’Italia" (Franco Angeli) di Carlo G.Lacaita ed Enzo R. Laforgia. Intervengono lo storico Arturo Colombo e il sindaco Attilio Fontana

Dante Isella, di tre anni più giovane di Luigi Ambrosoli, gli è stato amico per tutta la vita. I due avevano frequentato lo stesso liceo classico in Varese, città natale di entrambi, e dopo la guerra si erano ritrovati, ancora a Varese, a condividere il clima di attesa, di speranze, di entusiasmi che caratterizzò quella stagione. Nel febbraio del 1994, celebrando Ambrosoli nel corso di una cerimonia presso l’Università di Verona, Isella rievocò una loro esperienza giovanile maturata in quegli anni lontani. All’inizio del 1948 si erano ritrovati insieme impegnati nel progetto di una rivista, della quale, contrariamente alle loro intenzioni, vide la luce solo il primo numero. Si chiamò “Provincia. Arti e Lettere”. Accanto alle firme di Isella e di Ambrosoli figuravano quelle di Vittorio Sereni, Domenico Bulferetti, Giuseppe Bortoluzzi, Silvio D’Arco Avalle, Emilio Bortoluzzi, Guido Morselli, Franco Gandini e Piero Chiara. Proprio quest’ultimo firmò uno dei testi pubblicati in prima pagina, Bilancio di alcune speranze, che si concludeva con una riflessione sulla dimensione di confine del territorio di Varese. Molti esuli o rifugiati avevano oltrepassato quel confine all’indomani dell’8 settembre del 1943 (e tra questi lo stesso scrittore luinese), per poi far ritorno in Italia, alla fine della guerra, portandosi dietro profondi legami di amicizia con quella terra ospitale appena al di là del fiume Tresa ed uno sguardo mutato, in grado di abbracciare più vasti orizzonti: Noi gente di confine siamo affezionati alla “frontiera”, ma non per un suo valore di limite o di baluardo, bensì perché ce ne è sempre venuta una caratteristica di internazionalità, oggi più che mai attuale e densa di avvenire, in un tempo che spera soltanto dalla felice complicità dei popoli nella pace, la sua pericolante salute. Il considerare la frontiera non come linea di separazione bensì come punto di contatto, come soglia da attraversare, doveva essere un’idea condivisa dallo stesso Ambrosoli. Anzi, per lo storico varesino, questa disposizione della sua terra d’origine a configurarsi come crocevia era la cifra stessa di quel paesaggio, della sua geografia. Quando infatti, sul finire della sua vita, consegnò un’agile storia “millenaria” della sua città, Luigi Ambrosoli sottolineò come "il territorio in cui sorse Varese [fosse stato], sin dalla preistoria, per quanto le testimonianze sono in grado di precisare, una zona aperta dalla quale provenivano richiami che era difficile non accogliere".
Gli anni della guerra avevano rappresentato un importante momento di formazione per Luigi Ambrosoli. Nato nel 1919, dopo il liceo aveva proseguito gli studi presso l’Ateneo milanese, dove fondamentali erano stati gli incontri con Antonio Banfi e Federico Chabod. E possiamo immaginare come proprio la lezione e l’esempio dello storico originario della Val d’Aosta, approdato alla facoltà di Lettere dell’Università di Milano nel 1938, siano stati determinanti per l’itinerario intellettuale e politico del giovane varesino, che alla vigilia di uno dei periodi più infelici della storia nazionale, nel giugno del 1943, si laureò mentre ancora prestava il servizio militare. Nell’abbandonare la cattedra universitaria per arruolarsi in una formazione partigiana valdostana nell’inverno del 1944, Chabod aveva scritto all’amico Ernesto Sestan: «Se vorremo potremo risorgere, ed è dovere innanzitutto di noi, uomini di studio, di lavorare perché questo volere ci sia, nei giovani almeno a cui è affidato un compito arduo».

Luigi Ambrosoli fu uno di quei giovani intellettuali che si fecero carico delle responsabilità imposte dal momento storico, addentrandosi in un mondo che, pur nello stesso spazio in cui aveva sempre vissuto, scopriva per la prima volta: quante cascine frequentate in quei mesi per ritrovare amici e compagni e comunicare le reciproche intenzioni! Non avevo mai immaginato che a dieci anni dalla scomparsa dello studioso varesino Luigi Ambrosoli e la frontiera. 
Ed è ancora negli anni del dopoguerra che andranno precisandosi gli interessi verso quegli aspetti della storia d’Italia (il movimento democratico, poi declinato nell’esperienza socialista, e il movimento cattolico), destinati a diventare i sentieri più battuti dall’uomo di studio.
È a quell’epoca che risalgono i primissimi interventi, inizialmente nella forma di recensioni o rassegne bibliografiche, su quell’autore cui sarà legato da una lunghissima fedeltà: Carlo Cattaneo. Del resto, solo dopo la liberazione Ambrosoli aveva potuto mettersi alla ricerca dei testi dello scrittore lombardo, che aveva sentito evocare per la prima volta nel corso delle lezioni milanesi di Chabod e di Antonio Monti, docente di storia del Risorgimento.
Di lì a poco, nel 1959, avrebbe visto la luce, per i tipi Ricciardi di Raffaele Mattioli, il volume "La formazione di Carlo Cattaneo". Ma scorrendo l’elenco delle pubblicazioni dello studioso varesino, si scopre che, sempre nello stesso giro d’anni, iniziarono a comparire suoi scritti su giornali e riviste della vicina Svizzera italiana: “Giornale del popolo”, “Libera stampa”, “Svizzera italiana”, “Archivio storico della Svizzera italiana”, “Bollettino Storico della Svizzera Italiana”, “Corriere del Ticino” (con quest’ultima testata intrattenne un’intensa collaborazione durata quasi un ventennio).
L’incontro con la Svizzera e gli svizzeri ha ragioni profonde: culturali nel senso più pieno di questa parola. Il Cantone Ticino fu meta privilegiata per l’emigrazione politica italiana a partire dalla fine del Settecento. Un’emigrazione importante sotto il profilo qualitativo (per le personalità di spicco che in stagioni politiche diverse attraversarono la frontiera) e per dimensioni. Lo sottolineò lo stesso Ambrosoli nel recensire il primo volume di Giuseppe Martinola, Gli esuli italiani nel Ticino, dedicato al periodo 1791- 1847 e pubblicato nel 1980: Accanto ai grandi esuli dei quali si fa più spesso il nome, ci sono centinaia di italiani costretti a varcare la frontiera per sottrarsi ad arresti, a persecuzioni, a condanne persino capitali, che hanno ritenuto, pensando certo che si parlava la stessa lingua, che vi era una cultura comune e dei costumi affini, di scegliere il Ticino come luogo in cui trascorrere il periodo di obbligata lontananza dalla patria.
Tra i “grandi esuli”, figurava ovviamente il suo Cattaneo, insediatosi a Lugano sul finire del 1848, per poi trasferirsi nella vicina Castagnola un anno dopo e colà risiedervi sino alla morte, sopraggiunta nel 1869. E Cattaneo rappresentò per Ambrosoli un’occasione ulteriore per rendere più solidi e saldi i legami che pure già aveva annodato con la Svizzera italiana. Il rigore storico, critico e filologico con cui aveva condotto l’attività di editore e interprete del pensiero e dell’opera di Cattaneo, ebbe come esito naturale il suo arruolamento nel Comitato italo-svizzero per la pubblicazione delle opere di Carlo Cattaneo.
Nel novembre del 2001, pochi mesi prima della sua morte, avvenuta nel maggio dell’anno successivo, lo studioso varesino fece la sua ultima apparizione pubblica a Lugano: ancora una volta per parlare del suo autore, a conclusione del convegno internazionale per il bicentenario della nascita di Cattaneo. Il convegno aveva esordito a Milano e in quella occasione il Presidente della Repubblica italiana, Carlo Azeglio Ciampi, volle conferire ad Ambrosoli e a Norberto Bobbio una medaglia di benemerenza quale riconoscimento solenne per il loro contributo alla diffusione, alla conoscenza e all’interpretazione dell’opera del grande intellettuale lombardo.
Anche il Cattaneo di Ambrosoli era in un certo qual modo un Cattaneo di frontiera, non rinchiuso nel recinto del localismo né appiattito su etichette identitarie, tristemente di moda nell’Italia degli ultimi vent’anni. “L’insistenza sul binomio Cattaneo-Lombardia – avvertiva Ambrosoli – può fare correre il rischio di collocare il Milanese in uno spazio storico e geografico limitato, mentre il respiro della sua opera va ben oltre la sua regione e la stessa Italia perché egli si rivolge soprattutto all’Europa e ha quale aspirazione che Milano e l’Italia tengano il passo con l’Europa”.
L’idea del territorio dialogante con il mondo doveva essere in qualche modo congenita in Ambrosoli e in quanti, come lui, avevano vissuto claustrofobicamente gli anni dell’Italia fascista e poi della Repubblica sociale. Anni in cui il confine con la Svizzera, per chi viveva nel Varesotto, rappresentò la linea di demarcazione con il mondo libero.
A questo tema Luigi Ambrosoli, in qualità di Presidente dell’Istituto varesino per la storia dell’Italia contemporanea e del movimento di liberazione (associazione da lui fondata
nel 1979 e che oggi a lui è intitolata), volle dedicare un pubblico dibattito nell’ottobre del 1984, chiamando a discuterne Guido Bustelli, Piero Chiara, Carlo Musso ed Elisa Signori. In quella sede, lo storico varesino ricostruì il ruolo che la vicina Svizzera aveva avuto durante gli anni del fascismo e nella stagione successiva all’8 settembre del 1943. Il territorio elvetico rappresentò allora un “retroterra neutrale” (la felice definizione è dello stesso Ambrosoli), che, nel concedere protezione e salvezza, offrì un’importante occasione di elaborazione e confronto alle forze antifasciste, che lì potettero godere della piena libertà di azione.
I profughi trovarono accoglienza anche in giornali e riviste, diedero vita ad iniziative culturali, al fenomeno delle cosiddette “colonie libere” (forme organizzative simili alle vecchie società di mutuo soccorso), all’università italiana in esilio, la cui autorevolezza era garantita dai nomi di Gustavo Colonnetti, Francesco Carnelluti, Alessandro Levi, Amintore Fanfani, Mario Toscano,
Mario Fubini, Concetto Marchesi, Luigi Einaudi e molti altri ancora. Come avrebbe ricordato Dante Isella, anch’egli internato militare in Svizzera nel settembre del 1943, appena al di là del confine la gioventù italiana che aveva attraversato il fascismo e la guerra poteva finalmente ricomporre i frammenti di esistenze “deragliate sui binari dell’inganno e dell’odio” intorno “a verità minime, ma certe”: “Lì noi Italiani avevamo, inebriante, la sensazione che la vita ci stesse inaspettatamente risarcendo della nostra gioventù ingannata”. 
Su corde emotive non dissimili anche Piero Chiara aveva modulato il ricordo del momento in cui si era lasciato alle spalle l’Italia ed aveva oltrepassato il fiume Tresa. Le volle riproporre Luigi Ambrosoli nell’avviare il dibattito cui si faceva cenno poc’anzi: Non mi accorsi dell’alba che trovai raggiante davanti quando misi piede sul primo sentiero. Invadeva il triangolo di cielo della valle del Tresa ed io vi andavo incontro veloce, scivolando e cadendo sul terreno bianco di brina.
In quegli anni difficili, avrebbe ricordato Ambrosoli nel suo ultimo volume, quando il conflitto assunse anche la tremenda dimensione della guerra civile, il territorio di Varese poté sfruttare al meglio la naturale propensione ad essere un crocevia, riuscendo a mantenere aperti, nei mesi dell’occupazione nazista, “i canali di comunicazione tra Milano e la Svizzera attraverso i quali il Comitato di Liberazione per l’Alta Italia (Clnai) mantenne i contatti con i rappresentanti alleati in territorio elvetico”. Del resto, anche l’idea di dover attraversare i “recinti”, del non poter delimitare con linee di confine la “nazione delle intelligenze”, gli derivava dalla lunga frequentazione del Cattaneo.
 

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Pubblicato il 17 Aprile 2013
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