Quando Havens cantava la libertà
E’ morto all’età di 72 anni, l’artista che aprì il Festival di Woodstock con un inno contro la guerra
A Bethel, piccola città rurale dello stato di New York, in quel 1969 quasi non si respirava: i sogni ingombravano il terreno, le speranze si radicavano nelle menti, il futuro era un’incognita da risolvere. La sottocultura hippie aveva fatto breccia nel sentiero pacifista americano: i concerti erano raduni; la musica era e faceva politica; la guerra in Vietnam era esplosa (e le chitarre elettriche non erano bombe).
Ma quei giovani non si arrendevano: al di fuori della Storia, nel dentro degli avvenimenti più crudeli e importanti del Novecento, ognuno di loro aveva qualcosa da dire e raccontare. Il pacifismo, certo. La rivoluzione, come un dogma. Il “flower power” al pari di una religione che non vuole dottrine ma solo libertà.
Richie Havens, morto il 22 aprile all’età di 72 anni per un attacco cardiaco nella sua casa di Jersey City, segnò il passo e il ritmo con “Freedom”. E con 25 album che regalarono agli Yes, gruppo di rock progressista, la bellissima “No Opportunity Necessary, No Experience Needed”. Canzone contro i conflitti, “Freedom”, lanciata dal palco di quel raduno con voce tenorile, rauca, spietata: uno show programmato di quaranta minuti si trasformò in un concerto di quasi tre ore con la parola libertà che si ripete per ben otto volte prima di risolversi nel verso “mi sento come un orfano”. La musica è graffiata, insistente, drammatica nel continuo ascendere “ad infinitum” di un messaggio che si propaga, come una pioggia salvifica, di fronte a cinquecentomila giovani pronti ad acclamare quel cantastorie implacabile. Perché Havens fu il primo artista a presentarsi in quella conclave di promesse woodstockiane con il compito di narrare l’inquietudine di chi si trovò, smarrito, nel sangue e nelle ferite di una fra le guerre più sanguinose del XX secolo. Allora, ecco il perché di quella parola perquisita e sezionata: libertà.
La strada verso casa è lunga e l’orizzonte è infinito: il rombo degli aerei, in Vietnam, si confonde con quello degli elicotteri della Cavalleria del Cielo. Qui, la libertà è qualcosa di etereo: uccidi o sarai ucciso. Havens sembra improvvisare: il suono è denso, la trance collettiva pronta ad esplodere, l’eco delle urla inarrestabile. Artista afroamericano, chitarrista nato il 21 gennaio 1941 a Brooklyn, Havens costruisce la sua carriera al Greenwich Village, tempio della protesta giovanile rinvigorita da Joan Baez e Bob Dylan. A Woodstock darà fondo al suo repertorio: canzone dopo canzone chiuderà con una versione estemporanea del gospel “Motherless Child”, e quel richiamo diverrà internazionale. Conosciuto per le sue cover di brani di Dylan e dei Beatles, nel 1993 suonò al concerto organizzato in onore dell’insediamento del presidente Bill Clinton. Funky e rock nello stesso tempo, Richie entrò di diritto nell’Olimpo dei grandi con quella “Freedom” che Quentin Tarantino utilizzerà anche per la colonna sonora di “Django unchained”.
Un “eroe della protesta” e un poeta dei tempi andati fatti di lotte psichedeliche tra blues e folk, jazz e country. Un nome da ricordare.
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