La musica mi ha salvato la vita più di una volta

Una voce che sa emozionare e trasmettere tutta la bellezza e verità che c'è nella musica. Intervista alla cantante Maria Pia De Vito in occasione della pubblicazione de “Il Pergolese” per la Ecm di Manfred Eicher

Di Giovanni Battista Pergolesi, artista morto prematuramente a ventisei anni dopo aver capovolto il teatro musicale italiano con l’opera “La serva padrona”, si ricorda la purezza stilistica e la ricchezza inventiva. Si ricorda il suo nome legato a quello di Igor Stravinsky – che per il balletto “Pulcinella”, commissionato da Diaghilev, utilizzò estratti da “Lo frate ‘nnamorato” e “Flaminio” – e ad uno “Stabat Mater” di potenza virginale. Ora è Maria Pia De Vito (foto a lato)- con Anja Lechner al violoncello, Francois Couturier al pianoforte e Michele Rabbia alle percussioni ed electronics – a lasciare una traccia indelebile con “Il Pergolese”, cd prodotto dalla Ecm (distribuzione Ducale Dischi).
Frammenti di vita ma, soprattutto, danze di lingue e corpi combinati in una ricerca di flussi melodici ininterrotti. Sia, o no, jazz da camera, questa musica sembra intervenire laddove la scena perde d’impatto. Ma è proprio in questo progetto alla pari tra i quattro musicisti, che la rappresentazione della mimica e del gesto diviene fondamentale per la tenuta del racconto. Così come lo è il napoletano, tesoro di quella città che, nel Settecento, Charles de Brosses definiva «capitale mondiale della musica». Allora, è facile carpire in questo disco ciò che di Pergolesi è più sentito e bello: la leggerezza, il canto, la tenerezza. Senza sottrarsi, però, ad un misticismo quasi pratico e quotidiano.

A dirci di quanto c’è, in questa musica, di napoletano è Maria Pia: «Pergolesi arrivò a Napoli a 15 anni e studiò in conservatorio sotto la guida, tra gli altri, di Durante. Poi, rapidamente, nei dodici anni scarsi della sua breve vita passò di incarico in incarico al “servizio” di principi e in teatri e chiese napoletane. Come non essere influenzati da una città di tale piglio in una fase come quella? L’uso del dialetto, la comicità e la ritmicità della lingua, la melodia più che la polifonia: alcune arie e alcune danze sono di chiara derivazione popolare. Il rapporto è evidente, anche se (e a me piace questo) mai oleografico. Di napoletano, ne il “Pergolese”, ci sono io. Scherzo, ma chiaramente il fatto che il napoletano sia una delle mie lingue poetiche preferite ha il suo peso. In effetti , ho scelto alcune arie in lingua e ho tradotto in napoletano due frammenti dello Stabat Mater principalmente per avvicinare al mio “cuore”, (e, spero, a quello dell’ascoltatore) la narrazione di quell’opera meravigliosa. Ma questa è solo una delle tante sfumature de “il Pergolese”, e sicuramente non la preponderante».

Un divertimento non musicale: abbina ai tre strumenti presenti nel disco (pianoforte, violoncello e percussioni) tre caratteri essenziali della musica di Giovanni Battista Pergolesi.

«Al pianoforte accosto la purezza cristallina del suono e ricchezza dei cromatismi nello stile compositivo di Pergolesi, al violoncello le melodie eleganti e animate a volte da una passione malinconica, dolente e umana mentre alle percussioni il ritmo (certo) e lo humour nei concertati di tante pagine di Pergolesi».

“Il Pergolese” è un progetto particolare e affascinante che non pretende solo attenzione ma addirittura dedizione dall’ascoltatore: quale è vera la conquista per una cantante che si misura con il peso della tradizione? E quando un artista si può dire soddisfatto?
«Da sempre mi misuro con tradizioni diverse e con il loro peso: la musica jazz afroamericana, quella di impronta europea, la tradizione napoletana (con preferenza dal 1500 all’inizio del 900), la musica barocca. Da jazzista posso dire che il mio impegno è nell’ amore per queste tradizioni per cercare di rendere “l’impressione” che questi linguaggi mi danno. Una sintesi tra linguaggi diversi nel rispetto degli elementi che di quelle tradizioni amo, ma con la bussola puntata verso il mio Nord, cioè essere fedele al mio gusto ed alla mia esperienza di improvvisatrice e compositrice qui ed ora, nel presente ed in rapporto con la contemporaneità. Il rapporto col pubblico si rinnova ogni volta, per me fare musica è sempre un atto comunicativo, empatico. Mi interessa “sentirlo” il pubblico, non far cadere le cose come se venissero dall’alto. Ma non si può essere schiavi del pubblico, sarebbe un tradimento di sé e del pubblico stesso.
Sono grata a chi mi ascolta da trent’anni e accoglie tutte le variabili della mia ricerca, ormai espansa in tante direzioni: dal barocco a Joni Mitchell all’improvvisazione elettronica più estrema. Di questo sono molto soddisfatta».

Napoli e la sua libertà selvaggia; Pergolesi e la sua libertà che accoglie le emozioni umane anche più dolorose. Come si compone il mosaico tra Napoli, Pergolesi e il jazz?
«Penso al jazz come ad un processo. Un modo di approcciare la musica o una lente attraverso la quale osservo un brano musicale, al di là dello stile o genere musicale cui appartenga. Credo che se ponessi la domanda agli altri musicisti che hanno lavorato a questo progetto (collettivo nel nome e nella sostanza) ti risponderebbero allo stesso modo, compresa Anja Lechner, che è la musicista tra di noi con un background ed una presente carriera nella musica “classica “. Fare jazz è aprire cornici, mutare forme, approfondire e variare gli aspetti armonici, ritmici di una composizione data. Questo è stato il fil rouge del nostro lavoro».

Per quanto riguarda Napoli e Pergolesi?
«Napoli è una città contraddittoria, vulcanica, poco digeribile per tanti versi eppure, o forse proprio per questo, la sua musica e la sua cultura sono un patrimonio senza pari per l’umanità. Nel 500 a Napoli c’erano cinque conservatori. Compositori fiamminghi e di ogni parte d’Italia e di Europa venivano a formarsi a Napoli. Agli aspetti più oleografici e “simpatici” di una presunta napoletanità (che francamente mi innervosiscono molto) io per contrappeso punterei l’attenzione su un lato di operosità, creatività, lirismo e malinconia che caratterizzano l’enorme produzione musicale e poetica napoletana. In questo panorama storico e musicale, Pergolesi si incastona come una gemma su un arazzo. La sua vita breve di infaticabile attività, la profonda umanità delle sue ispirazioni, l’umorismo e la malinconia sono profondamente napoletani. Poi, potremmo anche un po’ scherzare sull’aspetto “improvvisazione “ e Napoli, ma su questo preferisco fermarmi o anch’io finisco nei luoghi comuni che non mi piacciono».

Quali sono state le maggiori difficoltà che hai incontrato nel realizzare questo progetto?
«Il progetto mi è stato commissionato dal Festival Pergolesi nel 2011, ma da subito questo lavoro è stato collettivo: insieme abbiamo scelto brani, brani strumentali, deciso dove lasciare le forme simili all’originale e dove lavorare utilizzando solo frammenti delle composizioni per alcune improvvisazioni collettive. Francois Couturier è un pianista che è stato un personaggio importante sulla scena dell’avanguardia francese, ma ha anche molto esplorato e frequentato la musica classisa, sia barocca che contemporanea. Anja Lecnher è una grande dame del violoncello classico in Europa, ma da anni ha ormai aperto la sua pratica all’improvvisazione con tanti musicisti dall’estrazione più varia. Michele ed io veniamo dal jazz, dal rock, dall’elettronica. In più, Michele ha una vasta cultura nella musica classica contemporanea. Così abbiamo messo insieme le nostre forze ed esperienze lavorando per sottrazione e con grande delicatezza per sfuggire alle trappole del kitsch, sempre in agguato quando si avvicinano pratiche musicali e linguaggi diversi. Dal 2011 in poi abbiamo fatto qualche tour, e di concerto in concerto abbiamo affinato il lavoro andando sempre più verso una forma in cui ogni solista si è trovato tra le mani una materia musicale in cui riconoscersi e muoversi con libertà. E nella quale Pergolesi non venisse “ stravolto” nella sua essenza».

Pacatezza espositiva: mi sembra sia questa una fra le leve che muovono “Il Pergolese”. Pacatezza che è anche passione e malinconia: due fortezze emotive sulle quali poggia il disco. È così?
«È stato così, e questo risultato si è ottenuto proprio attraverso quello che dicevo prima. Abbiamo amato la passione insita in alcune melodie, che fossero “Ogne Pena cchiù spietata” o la sinfonia per violoncello, e abbiamo provato ad abitarle, pur nel pronunciarle in un modo diverso dall’originale o mettendole davanti ad un fondale, un soundscape elettronico anziché un’orchestra d’archi. E anche posti di fronte ad un materiale ritmico e vivace ci siamo attenuti a dinamiche naturali, forti ma acustiche nella loro essenza».

Nella lingua napoletana penso sopravviva un sincero rispetto per tutto ciò che mette insieme vecchio e nuovo. Ne “Il Pergolese” cosa resta del vecchio e cosa si propone di nuovo?
«Dici bene, perché il napoletano è riconosciuto come lingua dall’Unesco. Uno dei motivi per cui la lingua napoletana è così ricca è che non si butta via niente. Napoli è stata invasa mille volte, e come una immensa spugna poggiata sulle sponde del Mediterraneo ha raccolto tutti i fluidi dentro di sé. L’arabo, il francese, lo spagnolo: nel dialetto napoletano tutto è mescolato e tanto si conserva. Certo, oggi molto si sta perdendo della lingua originale, ma il nuovo viene rielaborato ed inglobato. Nel Pergolese, il senso della melodia e della narrazione di Pergolesi sono preservati e “salvati”. Il “nuovo”, se si può usare questa parola proprio oggi che tutto sembra essere stato detto e scritto, è il terreno di coltura in cui il materiale musicale è stato posto. Un terreno di tessiture sonore inusuali per quel materiale, e di dialogo tra noi musicisti, elaborato in tempo reale improvvisando insieme».

Pensi sia più stupido fare gli originali o chiudersi nelle proprie certezze musicali rinunciando alla sperimentazione?
«Una grandissima docente di composizione e compositrice essa stessa, Nadia Boulanger, punto di riferimento per grandi compositori classici, musicisti e compositori di estrazione diversa (da lei sono passati Copland, Bernstein, Philip Glass, Piazzolla, Egberto Gismonti, Herbie Hancock) ha detto una frase che mi piace moltissimo: “Non c’è nulla di più stupido che cercare di essere” originali. ”Originale” vuol dire essere diverso da quello che sei? E’ molto meglio che tu scriva qualcosa di quello che sei. Magari sarà uguale ad altre migliaia di brani ma almeno sarà personale. Concordo con questo perché si deve essere onesti, conoscere il proprio passo per potersi lanciare senza rete. D’altronde non è un dovere “sperimentare”, però per sentirsi ed essere artisti vivi è importante esporsi alla possibilità della trasformazione».

La musica barocca e del Settecento sta offrendo, ancora oggi, chiavi di lettura per l’epoca contemporanea?
«Non saprei. Il fatto che l’improvvisazione sia parte integrante di questa musica, però, la avvicina alla nostra esperienza della musica oggi e credo che questo aspetto “audiotattile” del barocco possa essere di stimolo e di interesse anche nella nostra epoca. Perché no? Amo e ascolto la musica barocca per mio piacere da quando avevo 16 anni e per me è stata molto formativa nell’attività improvvisativa. Della musica barocca amo la vocalità, ancora libera da eccessi di volumi e vibrati che hanno poi caratterizzato la voce a partire dal melodramma».

Sfumature e ombre si accompagnano, in questo lavoro, ad una serenità ricercata. Quasi mistica. Si tratta forse di un Pergolesi speranzoso: è così che lo ritrai e che lo preferisci?
«In realtà è un caso. Quello che abbiamo scelto per il disco è il risultato del gusto di ognuno di noi. Senza dubbio, in questo lavoro esiste un lato spirituale e di lirismo molto forte».

Questa tua “opera” possiede una straordinaria qualità: non assolutizza la scena anzi, la nutre con accenti, sospiri, silenzi che si fanno urla nell’anima. Dove vuoi arrivare con la tua voce?
«A me piace narrare, anche senza parole. Un mio disco di tanti anni fa – “Phonè” – indagava appunto sulla fonè, sulla voce che precede il linguaggio e che esprime gli affetti prima che essi siano articolati in parole, attraverso esempi di vocalità e composizioni provenienti da culture diverse. Tutto questo mi piace, così come il fatto che la voce possa essere nella trama della musica anziché sempre, prepotentemente ma direi anche inevitabilmente, protagonista. Uso con piacere effetti vocali e studi di vocalità percussiva indiana per poter avere questo altro grado di libertà. In fondo cerco sempre la stessa cosa: che la mia voce mi sorprenda e che comunichi con calore gli effetti della mia ricerca».

Una sola parola che possa descrivere questo tuo nuovo disco per la Ecm?
«Appassionato».

La musica salverà il mondo?
« lo so. Di certo, mi ha salvato la vita più di una volta».

Redazione VareseNews
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Pubblicato il 30 Novembre 2013
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